Anna Lombroso per il Simplicissimus

Maledetto il paese che ha bisogno di eroi e di martiri. Eppure a ogni festa della polizia, a ogni celebrazione con consegna di cavalierati del lavoro, di onorificenze alle vittime del dovere, a ogni commemorazione dell’intrepido pompiere e del volonteroso operatore della Protezione civile,  si sente ripetere lo stesso mantra dall’insignito, se vivente, e dai cerimonieri che festosamente fanno copia incolla dall’anno prima dell’apoteosi e della glorificazione dello spirito di sacrificio e dell’abnegazione, che devono necessariamente animare gli addetti a incarichi e servizi, espressioni di una vocazione e risposta a una chiamata.

E dire che tutto sarebbe più civile se invece dell’immolazione venisse richiesta una continuativa e regolare responsabilità, se al posto della gratitudine venisse corrisposto un salario dignitoso, se alla pretesa di dedizione volontaristica sostituissimo il riconoscimento di remunerazioni e progressioni di carriera ragionevoli e gratificanti.

Prima che si divulgasse il verbo secondo il quale vale più il bastone della carota, autorizzato in risposta alle illegittime rivendicazioni di lavoratori che hanno voluto troppo, prima che diventasse convinzione diffusa che, per favorire il turn over generazionale in grado di sostituire risorse fresche a demotivati vecchi ronzini, servisse licenziare e rinnovare continuamente il parco macchine  con forza lavoro precaria e ricattabile, si era già affermata l’usanza di compiacere chi svolgeva mansioni sgradevoli, moleste e spesso avvilenti promuovendoli ad angeli, a  icone e santini in tuta, divisa, camice, dei quali si sono riempiti i sussidiari, i libricuori e le smemorande, con l’aspettativa, largamente appagata, che in cambio della retorica, subissero in silenzio tagli, demansionamenti, umiliazioni, ristrutturazioni, delocalizzazioni.

Altrettanto vale per badanti dalle quali si pretende che amino di affetto incondizionato assistiti e pazienti e che in ragione di ciò siano disposte ad accettare paghe che offendono diritti e dignità, sistemazioni incivili e svariate intimidazioni per via di regolarizzazioni arbitrarie, come è accaduto grazie alla ministra Bellanova, che non si fa tuttora dimenticare.

L’intento non era solo quello, è ovvio, di dare un po’ di guazza a ceti “essenziali”,  ma svalutati e le cui rappresentanze corporative avevano via via perso peso contrattuale, bensì consisteva nella volontà precisa di demolire la credibilità, il prestigio e l’efficienza di sistemi pubblici: assistenza, istruzione, servizi,   per dirottare utenti, pazienti, studenti su quelli privati, foraggiati e favoriti, finanziati e  propagandati perfino dalle organizzazioni sindacali ormai assoldate dal welfare aziendale.

La tendenza alla celebrazione in cambio dei diritti si è rinnovata con la pandemia, quando si sono scordati gli aguzzini  delle Rsa, gli inservienti che lasciano a digiuno i vecchietti perché imboccarli non rientra nelle loro mansioni, i medici che ti fanno dire 33 su wathsapp, inadeguati a una qualsiasi diagnosi che non si appoggi a decine di indagini e accertamenti a pagamento,   e poi il vitto scadente, gli orari studiati per il personale e incompatibili coi bisogni dei pazienti e delle famiglie, le ostetriche  che lasciano urlare la partoriente senza epidurale così paga il godimento passato, la negazione di morfina e antidolorifici ai morenti.

E pure gli obiettori di coscienza a intermittenza, a seconda che agiscano in ospedale o nelle cliniche dei cucchiai d’oro e il tu con cui si apostrofano i “nonnetti”, i termometri alle cinque e trenta del mattino, il rinvio del cambio dei pannoloni al turno successivo, come la noncuranza nei confronti del malato e dei parenti, dei quali viene messa in dubbio la buonafede, con l’accusa di voler confinare i propri cari in corsia e ai quali divinità enigmatiche negano informazioni, diagnosi e previsioni.

Tutto è diventato oggetto di una narrazione eroica e epica,  che contribuiva a far dimenticare i tagli alla sanità, i reparti chiusi, i concorsi truccati, le strutture ridotte a archeologia clinica prima di essere aperte, sorte per appagare carrierismi baronali, i piani di emergenza vecchi di dieci anni, i dispositivi comprati per qualche speculazione e lasciati a impolverarsi in qualche sotterraneo e quelli mai usati perché non si è formato il personale, ridotto in termini di numero e preparazione, le valanghe di farmaci oggetto di gare opache e rifornimenti farlocchi, mentre si negavano le abituali medicine al ricoverato che doveva portarsele da casa.

Tutto ha concorso alla beatificazione delle truppe, al ripetersi degli atti di fede nella scienza, rinnovati con la fiducia a medici di base che proseguono indisturbati a riprodurre ricette e negare assistenza, legittimati dalla tachipirina e dalla vigile attesa a venir meno a obblighi deontologici.  Tutto è servito a esaltare il sacrificio del personale sanitario costretto a prestazioni straordinarie, mentre dietro alla memorialistica   apocalittica sui social degli addetti ai lavori, le regioni criminali, i governi vigenti e le autorità sanitarie coprivano e lasciavano impunite le magagne del passato in modo da autorizzare e ottenere l’immunità per quelle future.

Poi giorni fa come una bombetta puzzolente di quelle che lanciavano dentro al cinema parrocchiale i ragazzini più esposti a diventare malandrini, irrompe la fastidiosa verità: un infermiere pubblica su TikTok un video “dissacrante” girato all’interno di un hospice nel quale lo si vede mentre mima  un conato di vomito a ritmo di musica con la didascalia “Quando vai a controllare il paziente dopo due clisteri.

Apriti cielo, la dirigenza della struttura sollecitata dallo sdegno del popolo delle anime buone dei social provvede a immediato licenziamento tramite lettera consegnata a mano dello sciagurato aspirante cabarettista che ha leso la reputazione degli angeli in camice bianco.

E si capisce,  era andato in controtendenza rispetto agli esemplari di altruismo e dedizione celebrati dai giornaloni che pubblicano in tempo reale le loro esternazioni:Mi impegnerò a staccare la spina ai pazienti non vaccinati”, Carlotta Saporetti. Infermiera,  “Ai no vax, gli bucherò una decina di volte la solita vena facendo finta di non prenderla e poi altro che mi verrà in mente”,  Francesca Bertellotti, infermiera,  “Per loro non faccio più le corse, si arrangiassero”, Stefania Trezza, infermiera, “Per i no-vax la soluzione è campi di concentramento e camere a gas”,  Marianna Rubino, medico, “Io sono molto democratico: campi di sterminio per chi non si vaccina”,  Giuseppe Gigantino, dottore, “Io, medico di famiglia, ora dico basta ai no vax. Guarirò chi protesta ma poi lo ricuserò”, Amedeo Giorgetti, medico di base, che vanta le sue 2 mila vaccinazioni in un giorno solo in un hub vaccinale volontario, a garanzia del suo spirito di servizio alla catena di montaggio di somministrazioni “sommarie”, per le quali l’anamnesi del paziente è una molesta perdita di tempo.

E dunque dagli addosso al dissennato che ha sollevato il velo dell’ipocrisia, mostrando che pulire il sedere è una incombenza sgradita e nauseante, che conferma il ricorso anche in famiglia a personale prezzolato in sostituzione di amorevoli cure dei parenti, insegnando che se vuoi che venga fatto con efficienza e rispetto devi rispettare il lavoro di chi lo fa.