A vendor sells #MeToo badges a protest march for survivors of sexual assault and their supporters in Hollywood, Los Angeles  Anna Lombroso per il Simplicissimus

Allora, tutto è cominciato quando una donna di spettacolo subito retrocessa al rango di divetta (chiamavano così le attrici che davano scandalo con abbigliamenti succinti o pose provocatorie sui red carpet) ha dato inizio a una campagna di denuncia di molestie subite nell’ambito dello show business, accolta con entusiasmo da chi si è abituato ai riti della giustizia  preferibilmente officiati a Forum, a ghigliottine solo virtuali, a processi nei salotti dei talk come se fosse ormai causa persa rivolgersi a  commissariati e tribunali.

Ma molto deplorata di cultori dell’ideologia del “se l’è cercata”, del “per come si veste, avrà fomentato”, del “ma quello è un ambiente corrotto, a donne perbene non succede”, del “in fondo non c’è mai morta nessuna, avrà avuto il suo tornaconto”, incoraggiando così, visto che in tanti ci cascano,  i burattinai di questa e simili pantomime, che orchestrano queste liturgie della riprovazione con attori “speciali”, in modo che restino in ombra altre più diffuse violenze “comuni” perpetrate su vittime ordinarie, in fabbriche, studi professionali, negozi, cucine, dove il ricatto fa rima con contratto e è sistema di gestione usuale, dove per legge la precarietà e l’incertezza lo favorisce, dove le donne, ma pure gli uomini, non godono di tribune altrettanto eccellenti, e sono costretti al silenzio tramite intimidazione e minaccia, o anche, perfino, per via della riprovazione di chi ormai è costretto a credere che posto incerto e salario minimo siano una fortuna che solo un viziato o una capricciosa prenderebbe a calci.

Allora sia pure infastidita dal frastuono delle curve, mi espressi difendendo le tardive denunce: tutto fa brodo, comunque sia l’oltraggio sia pure con diverse gerarchie è un affronto per la dignità di tutti e le vittime restano vittime, anche se sembrano solo in cerca di scomoda pubblicità, anche se hanno una voce e  atteggiamenti indisponenti e preferiscono lo sberleffo al ragionamento. Lo sostengo anche oggi, aggiungo, anche se si racconta che si siano si rese colpevoli di colpe e delitti analoghi a quelle che hanno subito. Perché non è una novità – l’abbiamo visto mille volte in vergognosi tribunali  a cominciare da quello del Circeo passando per Firenze dove sono stati convertiti in vittime i carabinieri che si sono approfittate di ragazze ubriache– quello delle molestie e delle violenze è un contesto spinoso, dove si toccano i nervi sensibili del virilismo più che della cultura patriarcale, dove succede che comportamento, inclinazioni, usi e umane debolezze delle donne bersaglio vengono esplorati e manipolati in modo da far sospettare opache correità, occulte istigazioni, esecrandi interessi.

Lo dimostra il riaccendersi dei riflettori sull’Argento. Non che si fossero spenti, eh, per via perfino di intemperanze filiali cui la maggior parte dei genitori italiani guarda con intenerita indulgenza, per via perfino della sua elaborazione del lutto, considerata alternativamente al disotto o al disopra dei normali standard. Ma che adesso permette che si metta in moto la macchina del revisionismo, a dimostrazione che si sarebbero sprecate compassione e  solidarietà, che le donne sanno gestire le loro prerogative di genere per i loro interessi, per rifarsi un’immagine sbiadita, per suscitare compatimento e approfittarsene, che si sapeva che da che mondo è mondo, la loro mela cela vermi e veleni.  Senza parlare delle pruriginose ricostruzioni, dei dubbi in merito allo svolgersi degli eventi grazie alla mutazione intervenuta tra gli opinionisti della rete, da ingegneri a sessuologi e ginecologi. E non basta, possiamo aggiungere al rinnovato fastidio anche le discese in campo degli accattoni del movimentismo, osservatori e  editorialisti al maschile, che si aggrappano a quel che resta del femminismo perché si tratta del fermento che impone minori scelte personali e professionali: in fondo male che vada, è sufficiente mettere i piatti nelle lavastoviglie, cliccare un mi piace sotto qualche post,  scrivere con alata penna della reproba.

Il fatto è che si preferisce non andare al fondo della questione, quando è invece evidente che comunque siano andate le cose tra la navigata attrice e il ragazzone vittima del suo mito maledetto, si tratta sempre e solo di esercizio del potere, di una delle sue mutevoli rappresentazioni, nessuna esclusa e nessuna più o meno colpevole di sopraffazione compresa quella che tira più di un carro di buoi. Il potere che governa attraverso censo, vantaggi dinastici, forza bruta o elegante persuasione, privilegi che nutrono una sicurezza proterva capace di piegare con la convinzione più che con la potenza muscolare, fama e notorietà conseguite oggi con molta più facilità di un tempo se le leggende si autoalimentano grazie a followers e tweet.  Così chi ne è stata attratta e sedotta e irretita può sentirsi autorizzata a tradurre il danno in risarcimento, in condizione di rimborsare l’ultima bambolina della matrioska con una cospicua donazione. Così si dimostra che il potere supera le differenze di genere, quando viene esercitato indifferentemente da maschi o femmine che ne hanno mutuato i caratteri, quando da entità apparentemente selvaggia e incontrollata cede all’assoggettamento antico del denaro che tutto può corrompere e comprare.