Appena una decina di giorni fa vigeva intatta la grande bugia di Fabbrica in Italia. Ma è bastato poco perché la promessa venisse spogliata dai vestititi e dai ninnoli che erano serviti a renderla un utile strumento per fare l’operazione Pomigliano e in seguito andare allo scasso delle relazioni industriali. E oggi quella menzogna ormai inservibile è stata sostituita da un’altra, assai più modesta e inquietante, ma funzionale allo stesso scopo: che la °Fiat resterà”. Come sarà possibile senza nuovi modelli, con piani sempre più spinti di delocalizzazione, con un mercato in profonda ristrutturazione  e i primi flop della Chrysler, è solo un atto di fede, anzi un pirandelliano cosi è se vi pare. Ma intanto la nuova bugia salva il governo, i sindacati, i partiti. Tutto ricomincia come prima solo ad un livello più basso.

Il manager col maglioncino proprio l’altro giorno aveva fatto sapere che la permanenza era legata agli aiuti di Stato così come avviene dappertutto. Uno squallido ricatto che del resto la Fiat esercita con successo da molti decenni, visto che  in 35 anni ha ottenuto più di 5 miliardi di euro in contributi pronta cassa, altri due miliardi in via indiretta e somme imprecisate, ma altissime tra cassa integrazione e contratti opachi con altre aziende del gruppo, insomma tutto quello che possiamo immaginare. Questa volta però la mazzetta richiesta da Marchionne assume un significato particolare e insieme alla menzogna aziendale, strappa i panni alla grande bugia di questi anni, mostra tutte le contraddizioni dalle quali è attanagliato il capitalismo liberista.

Dopo che per decenni si  sono dette peste e corna dello stato, si  sono demonizzati welfare e diritti come palle al piede dello sviluppo, i circoli liberisti hanno teorizzato la messa in mora della politica e della democrazia come un fastidioso intoppo al mercato, l’ad Fiat ci dice che si può produrre e guadagnare solo dove arrivano soldi pubblici sotto forma di corposi contributi diretti, esenzioni fiscali e aiuti di ogni genere. Trascura di dire che poi gli Stati dove si vanno da impiantare fabbriche pretendono una consistente partecipazione societaria, ma si sa che la dimenticanza è qualcosa che accomuna Marchionne ai suoi interlocutori governativi.

Però da questo incontro di Teano, durato lunghe ore per poter mettere a punto un comunicato anodino che pare conciliare tutto e in realtà non dice nulla, è evidente che siamo arrivati a un capolinea: il “sistema” e le sue filosofie si sono arenate e senza un cambiamento radicale non sarà possibile alcuna navigazione, nemmeno mettendo ai remi i ceti popolari e battendo il tamburo.  Marchionne pretende di avere soldi dallo stato e allo stesso tempo di deformarne le regole e di assoggettarlo, ma i soldi non ci sono perché si è dovuto aderire a una filosofia europea, suggerita e imposta dai marchionne mondiali e dalle banche, che vede solo il privato e comanda di sottoporre il lavoro al ricatto, di eliminare il welfare e di risparmiare all’osso. E’ il comma 22 del liberismo, anzi dell’economia. O il tentativo di dar vita a un nuovo medioevo in cui lo stato diventa vassallo delle classi dirigenti e della predazione privata. Purtroppo per l’ineffabile manager Fiat e per tutti i suoi complici, nel medioevo non c’erano le auto.