Pochi se ne sono accorti o molti fanno finta di non accorgersene, i media non ne parlano e i politici come sempre fanno i pesci in barile, una lunga abitudine che ha trasformato un vizio in realtà : la questione europea non è più economica, ma politica, la scelta fra l’euro o un ritorno alle vecchie monete, dipende esclusivamente da quale tipo di disastro preferiamo. La moneta unica sarebbe stata una grande occasione se fosse stata accompagnata da un matrimonio politico del continente con passaggio di sovranità a vere istituzioni, a una vera banca comune. Purtroppo però Bruxelles e Strasburgo sono rimasti sempre alberghi a ore, un rifugio per amanti temporanei che poi tornano alle loro famiglie, ai loro interessi, nazionalismi, mentalità, economie. Amanti che non hanno il coraggio di avere un futuro insieme ma fingono di averlo inventandosi regole, scaramanzie, piccole abitudini, pegni di immaginazione, reciproche tirannie della cattiva coscienza.

In queste condizioni non si può avere un conto in comune, perché alla prima difficoltà tutto si sfascia. E la crisi è stata proprio questo, il biglietto trovato in tasca o in borsetta, la verità che viene a galla impietosa e nelle inquiete stanze non sono più sospiri, ma tensioni e ricatti, quella realtà costruita di conchiglie e di sogni si rivela inadatta e incapace, la piccola burocrazia degli amanti si sfarina. Si potrebbe forse decidere di fuggire assieme, ma come sempre in questi casi, quando si prende coscienza delle possibilità perdute è troppo tardi. E così il conto in comune diventa motivo di fratture più che di unione.

E’ troppo tardi per costruire in questa tempesta un’ Europa politica, non ci sono gli uomini e le donne per farlo, nè gli Schumann, gli Adenauer, i De Ggasperi, ma nemmeno i Mitterand e i Kohl: la politica subalterna alla finanza si è riempita di personaggi di straordinaria mediocrità. Forse una possibilità esisterebbe se Francia, Italia e Spagna opponessero un fronte comune alla Germania tentando di fare della Bce qualcosa di simile a una banca centrale, ma questo fronte comune tra un presidente socialista, un premier della destra clerico-finanziaria e un governatore messo al suo posto dalla stessa Germania è di fatto quasi impossibile.

A meno di eventi straordinari l’unica politica possibile è quella di una scelta fra due disastri: tenersi aggrappati al’euro o uscirne. Dico politica perché appunto le conseguenze sono cruciali e investono il senso stesso della società, le sue istituzioni, la sua democrazia. Con un un’ uscita dall’euro molti risparmi verrebbero  vanificati, l’inflazione avrebbe un’impennata straordinaria mettendo in crisi i salari reali e costringendo a forti tagli nella spesa. Sarebbero due o tre anni  anni terribili. Ma in compenso ritorneremmo competitivi ed eviteremmo  il rischio di default visto che riavremmo tutta la sovranità monetaria e la capacità di decisione:  dopo molti anni di stasi il Paese si rimetterebbe in moto su basi diverse e diventerebbe inutile oltre che dannosa l’illusione sulla quale stiamo scivolando, quella di ritornare concorrenziali attraverso la castrazione dei diritti e del welfare: avremmo una moneta con la quale agire in questo senso senza essere costretti a distruggere il mercato interno.

La permanenza nell’euro certo non presenta fratture drammatiche, ma ci costringerebbe a tirare la cinghia per almeno un ventennio,  a cercare un’impossibile competitività  azzerando di fatto il welfare, abolendo  man mano ogni diritto, lasciandoci senza risorse per rilanciare i settori strategici del futuro che sono la scuola e l’innovazione. E tutto senza avere alcuna sovranità di fatto sula moneta,  sul credito, senza essere padroni in nulla del nostro destino, senza contare la svendita degli asset validi del Paese, dei beni pubblici e della crescita esponenziale della disuguaglianza. Inutile farsi illusioni: la democrazia si trasformerebbe definitivamente in un’oligarchia di carattere internazionale che con la scusa del debito farebbe enormi profitti, come del resto è accaduto altrove con le medesime ricette prescritte dall’Fmi e dai grandi banchieri. Insomma sacrifici sì, ma in vista del nulla almeno per il 90% della popolazione, costantemente impaurita dalla possibilità di default che con una moneta forte e contemporaneamente alti interessi sul debito è quasi un destino.

Sacrifici se ne dovranno fare comunque, ma una cosa è farli per rinascere come società e comunità, con un ritorno all’idea di un minimo di coesione e di equità sociale, con la speranza di crescere, un’altra è farli per morire silenziosamente nell’abbraccio di finanzieri e potentati.

Ecco perché la scelta è soprattutto politica, anche se la politica sembra evitare lo sguardo ormai divisa tra il populismo della parola gridata e quello del mutismo pervicace, tra affari di casta, di azienda, di banca e ritualità europeiste, tra disperata domanda di rappresentanza e disorientamento. Marie Le Pen in Francia ha strappato il 17% con uno slogan che è tutto un non programma, un rifiuto dell’ “Unione sovietica europea”. Una furbata per essere di destra contro la destra che regna nel continente, un riuscito balletto del niente contro tesi e ricette che –al lordo degli opachi sciovinismi – sono state sempre viste con simpatia, salvo accorgersi che non funzionano. Qualcosa di molto simile alle reazioni scomposte del berlusconismo sempre sul crinale tra l’ostilità verso chi ha disarcionato il capo e i golosi massacri sociali di cui hanno sempre inneggiato nei loro discorsi da bar.

Ma questo è un altro pericolo ancora: la saldatura tra la vacua narrazione di destra e la paura, una miscela incendiaria, ancorché insensata che potrebbe avere conseguenze drammatiche, mettendo in forse persino le forme della democrazia, oltre che una sostanza aggredita ogni giorno. Il fatto è che è venuto il tempo di scegliere e non di tirare a campare in attesa che accada qualcosa o peggio ancora di essere travolti dagli eventi per apparire innocenti.