La mistica della grande opera

Un barlume gli ha illuminati. Ieri i cosiddetti tecnici hanno capito che la questione della Tav Torino – Lione deborda ormai dai confini dell’opera in sé per diventare questione democratica. E sono corsi ai ripari con la solita pecetta delle promesse future che dovrebbe far digerire un opaco presente sul quale si non si transige.

Un barlume appunto, ma che si è spento nell’ambiguità pirandelliana in cui vive l’esecutivo per cui un’obiettiva menzogna può al tempo stesso essere una verità inconfessabile. In questo caso l’affermazione che la Tav sarebbe una questione vitale per il Paese è una balla così palesemente assurda, così sfacciata che grida vendetta: esistono tonnellate di documentazioni tecniche.per davvero che mostrano la totale inutilità dell’opera.  Al tempo stesso però per il capitalismo finanziario di cui l’esecutivo è espressione questa è una verità, non perché una linea ferroviaria serva davvero, ma perché aderisce alla mistica delle grandi opere in cui si sostanzia l’idea economica che cova dentro le sobrie testoline di governo. La grande opera è infatti la mangiatoia ideale del capitalismo liberista: permette alle banche e alle aziende di gestire in proprio i capitali pubblici, quasi sempre sottratti al welfare, facendo enormi profitti senza investire nulla. E in Italia, dove il costo dei lavori è mediamente quattro volte superiore a quello europeo, questo significa un pezzo di torta per tutti: per chi ostinatamente si batte per la  realizzazione, per i faccendieri, persino per la criminalità organizzata che certo non può essere lasciata fuori dalla porta, Le scatole cinesi dei subappalti sono lì per quello.

Il fatto che poi la grande opera passi come un rullo compressore sui territori importa pochissimo. E men che meno ha un qualche interesse il fatto che sia utile. Anzi la grande opera inutile è più vantaggiosa perché permette maggiori margini di guadagno, maggiore elasticità dei tempi e certo minore cura nei manufatti oltre al fatto che non è necessario finirla. E permette, come nel caso della Val Susa di iniziare i lavori senza sapere nemmeno dove prendere i soldi. La balla colossale che la tratta sia imposta dall’Europa, nasconde solo il fatto che se i finanziamenti europei non ci saranno o saranno scarsi, si procederà egualmente, prendendo per il naso il buon senso e dicendo: ormai abbiamo cominciato, finire qui sarebbe come buttare via i soldi già spesi.

I giornalisti “nemici”

Non può sorprendere dunque che i potentati economici italiani vedano in Monti l’uomo giusto al posto giusto, l’uomo che davvero li capisce e che per giunta è così preda dell’astrazione ideologica da poter operare senza nemmeno sensi di colpa. Così hanno indirizzato i loro cannoni, ovvero i media di cui hanno il monopolio pressoché incontrastato, per sostenere il loro ragazzo di bottega anche a dispetto dei santi e delle evidenze.

Il gioco è così sporco, la censura delle ragioni della protesta e dei dati incontrovertibili su cui si basa così clamorosa che per la prima volta in Italia anche la stampa è vista e sentita dai No Tav come nemica. Forse ancor più nemica delle forze dell’ordine che sono anch’esse vitttime della situazione. I giornalisti sono spesso scacciati come non accadeva nemmeno nelle assemblee sessantottine più accese e in radicale opposizione al “sistema”, non vengono percepiti come strumenti per diffondere le proprie motivazioni, ma come gente al servizio di un meccanismo di repressione mediatico. E questo vale per il cronista di primo pelo come per l’anziano trombone.

Non credo che abbiano tutti i torti, anche se qualche brandello di verità e di dati trapela da quelle poche oasi che non hanno alle spalle Fiat, Mediobanca, Telecom, Mediaset, Sorgenia, Confindustria. Credo anzi sia l’ovvia reazione a una situazione se possibile ancora più chiusa rispetto all’era del Cavaliere che almeno suscitava delle rivalità in altri padroni delle ferriere.

Anche questa è una questione dell’irrisolta democrazia italiana che molto più spesso di quanto non appaia consiste nell’invito a un dialogo “purché si faccia come vogliamo noi”. Frase che finisce nel taccuino e poi  in prima pagina, come se si trattasse di una dialettica ovvia e normale. E come se proprio la mancanza di discussione e di verità non fosse all’origine della violenza.