darwinConfesso che ogni tanto non mi dispiace guardare qualche documentario naturalistico anche se questo mi fa rischiare spesso lo choc anafilattico perché, a parte qualcosa francese e il grande Attenborough, sono tutti  direttamente o indirettamente di origine Usa e dunque vivono dentro una delle insopportabili antinomie del sincretismo americano che a un Darwin da barzelletta insistentemente proposto ad ogni passaggio contrappone un melenso antropomorfismo disneyano. Così mentre è tutta un’esaltazione della crudele lotta per la vita, della sopravvivenza dell’individuo migliore e della scomparsa del perdente, si panegiricano i “buoni sentimenti animali”, tipo l’amore materno che è comunque il minimo sindacale per i mammiferi o altre caratteristiche che vengono direttamente riferite al mondo umano secondo uno schema ormai millenario, ma in questo caso semplicistico, ad onta della patina di scientificità che queste rappresentazioni della natura pretenderebbero di avere.

Sarebbe sciocco negare la stretta parentela umana con il complesso della vita, le similitudini e la creaturalità animale, ma è ancora più sciocco negare che la vita stessa ha creato un nuovo ambiente, la cultura, e la sua forma di evoluzione, la storia, di cui siamo gli unici rappresentanti e che cambia completamente  le carte in tavola. Ad ogni modo prima di infilare la strada che porta a Bergson, questi documentari sono una vera miniera per comprendere la contemporaneità. Cominciamo dal vecchio Darwin trascinato a forza in questa arena di lotta senza quartiere per la vita: ci sarebbe da sorprendersi per la sua continua quanto impropria chiamata in causa visto che i meccanismi dell’evoluzione hanno ben poco a che vedere con quelli pensati a suo tempo da Sir Charles e che persino le successive rielaborazioni sono oggi travolte dalle nuove conoscenze: la rivoluzione evo-devo e l’epigenetica per parlare solo delle linee di cambiamento più importanti, stanno stravolgendo il campo tradizionale e mutando radicalmente le basi concettuali. Questo senza parlare dell’aspetto epistemologico della questione. Tuttavia la vecchia teoria darwiniana è ormai da un secolo e mezzo parte integrante dell’ideologia capitalista e non è facile rinunciarci, abbandonare un marchio universalmente conosciuto e riconosciuto: permettendo di fare del singolo individuo, del suo successo o insuccesso, della sua adattabilità passiva il fulcro dell’evoluzione ( con tutti i problemi irrisolti o falsamente risolti che questo comporta), si rimanda consapevolmente e per analogia a una struttura antropologica atomizzata nella quale la società nel suo insieme è soltanto un’astrazione, si giustifica sia il buon diritto delle elites al dominio che  la disuguaglianza come fatto inevitabile e intrinseco. Insomma il vecchio darwinismo, sia pure nella sua vulgata semplicistica, garantisce la visione capitalistica come prosecuzione dello stato di natura riprendendo, ma anche capovolgendo Rousseau.

Questa è una delle ragioni per cui persino nell’ambiente specialistico, dominato dall’accademia americana e dunque inserita in un’ideologia globale, si fa una gran fatica ad ammettere che la distanza da Darwin è ormai tale da avere poco o nulla a che vedere con il padre fondatore, così come la teoria quantistica ha scarsa parentela diretta con Galileo che tuttavia rimane il fondatore della scienza moderna. Insomma si rinuncia con difficoltà non tanto a Darwin quanto al darwinismo ideologico al punto da assistere a brillanti tentativi di superare le difficoltà riproponendolo a un livello più basico, ovvero a quello dei geni di cui i corpi non sarebbero altro che macchine da diffusione e riproduzione: cosa piuttosto singolare visto che il dna e l’rna sono molecole che hanno come loro caratteristica precipua quella di riprodursi in copie uguali. Insomma tanta fatica di costruzione per nulla, anzi per una sorta di paralogismo fattuale.

Paradossalmente questa dose di spietatezza viene compensata da dosaggi di mielosa retorica dei sentimenti quando si tratta di cambiare registro e aggiungere alla lotta per la vita l’amore per propria discendenza o per i propri simili, quando questo è possibile, per non parlare dell’enfasi sulla fedeltà di coppia, la lotta tra maschi per le femmine e via dicendo. il che oltretutto è un’ipocrita concessione al cretinismo creazionista. Qui oltre che un diffuso vangelo comportamentale a scopo educativo si nota un’antropomorfizzazione a tutto tondo: se come diceva Feuerbach “gli attributi che definiscono Dio e lo descrivono non sono altro che attributi umani elevati al loro grado massimo“, in questo caso si prende l’emotività umana e la ipostatizza in una sua presunta purezza nell’animale, come avviene dai tempi della grotta di Altamira e di altri luoghi ancora più remoti nel tempo.  Questa operazione non contrasta affatto con la prima, anzi in qualche modo ne dimostra la plausibilità inserendo nel quadro complessivo anche l’esperienza emozionale che tutti viviamo e che potrebbe entrare in contrasto con la visione della vita bellica, fornita come primo impatto oggettivo.

E’ un piccolo e modesto esempio della pervasività di una egemonia culturale che lavora anche quando sonnecchiamo o ci sentiamo al sicuro dal cronachismo informativo. Anzi è proprio in questi momenti che si plasma la visione del mondo.