Anna Lombroso per il Simplicissimus

«Non ci sono provvedimenti incisivi per la ripartenza, in particolare per quanto riguarda ricerca, innovazione e infrastrutture». Così il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ieri, a margine dell’Assemblea degli imprenditori del Verbano-Cusio-Ossola. E continua: “preferirei meno annunci e più cose concrete …. Non dimentichiamo che si era anche parlato di 20 miliardi di investimenti per il piano Fabbrica Italia, di cui poi si è persa traccia”.
Monti non potrà lagnarsi di essere stato abbandonato dai “poteri forti”, arriverà presto quel supercommissario incaricato di far regnare l’ordine negli indisciplinati protettorati, con ampia facoltà d’intervento nei conti pubblici degli Stati membri dell’eurozona e abilitato a imporre, nelle province dell’impero, limiti alla spesa e tagli in nome del “risanamento”.

È che perfino gli imprenditori, perfino i padroni si stanno accorgendo che la ricetta di Monti, per conto della tirannide globale, non funziona. Perfino loro si accorgono che bisogna spendere per far ripartire la crescita, perfino loro non credono più nelle grandi bugie della teocrazia della finanza, perfino loro sono convinti della necessità di pensare a una alternativa all’austerità.
È che è evidente che il sistema si è avvitato su se stesso in una spirale mortale: anime belle hanno sostenuto la necessità di azzerare la crescita o addirittura di attivare un processo di decrescita per salvaguardare il futuro del pianeta e, con esso, dell’umanità. Ma quella avviata dall’alto è una decrescita infelice, un’aberrazione che sta trascinando anche le imprese e le produzioni, oltre che gli stati e i popoli, in un abisso. Concordano anche loro che dello sviluppo abbiamo necessità, dismettono le ipotesi di scuola di uno stato stazionario, alla John Stuart Mill, nel quale non ci sia motivo per ‘urtarsi e scavalcarsi’ e ci sia spazio per la contemplazione della natura e per la riflessione, ipotesi suggestiva ed eticamente encomiabile, ma ormai poco praticabile anche perché il nostro paesaggio è ormai oscurato da fumi, cumuli di immondizia, cemento.

Lo stato stazionario nel quale si possono gustare le “delizie della vita” sarebbe offerto soltanto a chi abbia già una posizione di privilegio nella società oppure con una redistribuzione drastica delle attuali ricchezze, con un rovesciamento dei rapporti di classe, con un’azione riformatrice lunga e tenace, o mediante un processo “rivoluzionario”.
È che le delizie della vita dei ricchi sono magari diverse dalle nostre ma soprattutto la strada per arrivarci. Ed è augurabile che non vogliano risuscitare la distruzione creatrice di Schumpeter: la crisi fa piazza pulita dei più deboli e delle imprese meno efficienti, ponendo le premesse del rilancio e dello sviluppo.

Le osservazioni di Squinzi sono invece “ragionevoli” e hanno il senso di una denuncia dall’interno dell’irragionevole e dissipata ostinazione nel perseguire un rigore auto dissolutore. Le politiche di ‘austerità’ hanno prodotto una rilevante contrazione del reddito pro-capite, soprattutto a danno delle famiglie con redditi più bassi e che si è tradotta nella contestuale contrazione dei consumi e dei risparmi. Che a sua volta si traduce nella riduzione dei depositi bancari, che di conseguenza spinge le banche a essere meno accomodanti nell’erogazione di finanziamenti alle imprese. Le quali, peraltro, nella gran parte dei casi, hanno sperimentato, a partire dallo scoppio della crisi, una consistente riduzione dei loro profitti così come una contrazione degli investimenti nei casi abbastanza rari nei quali si manifestasse la volontà di farlo.
Le politiche di austerità riducono la domanda interna, comportano una contrazione dei profitti monetari delle imprese e, al tempo stesso, rendono sempre più difficile l’aumento delle loro dimensioni, a ulteriore conferma del fatto che mettere assieme austerità e crescita è un ossimoro, che le politiche di austerità sono controproducenti per l’obiettivo per le quali sono messe in atto (la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL), e che ormai sono in palese contraddizione non solo con gli interessi dei lavoratori e della ‘classe media’, ma anche – e sempre più – con la sopravvivenza di una parte considerevole delle imprese di produzione, vittime di una inedita forma di iniquità che ha indirizzato i soccorsi rivolgendoli unicamente al salvataggio del sistema bancario.

Insomma perfino Squinzi – non Marchionne, ché i manager, come i tecnocrati, continuano a intascare guadagni smisurati anche quando le loro imprese o i loro governi vanno in rovina – sta convincendosi della instabilità e ingiustizia dell’attuale mutazione del capitale. Che non può essere considerata come un costo transitorio e inevitabile cui ci sottoporrebbe una nuova avanzata dell’economia.
Ma c’è da temere che i neo barbari che ci stanno “governando” non sentano ragione, nemmeno quelle dei padroni, che preferiscano le tenebre all’aurora di un rinascimento, le laceranti disuguaglianze a una crescita produttiva di pubblica felicità. Forse perché sono convinti che la loro prosperità si nutra della nostra miseria. È ora di dissuaderli anche con le cattive maniere.