Licia Satirico per il Simplicissimus
“Repubblica democratica fondata sul lavoro” è una frase alla ricerca di un nuovo significato: vent’anni di berlusconismo hanno inciso sulla nostra forma di Stato, ora del tutto stravolta dall’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio. Le fondamenta del lavoro sono minate da una precarietà diffusa ora nota come “flessibilità”: in entrata, per privare i giovani della certezza del futuro, e in uscita, per privare i meno giovani della certezza del presente. Il nostro Stato poggia quindi su basi instabili, fragili, elastiche e frammentate. La guardiana delle macerie è il ministro del lavoro, affiancata da un viceministro noto sinora per le sue gaffes sui laureati sfigati e per la carriera rampicante.
Non è un bel primo maggio. A dirlo, dai microfoni di Radio Anch’io, è proprio Elsa Fornero, che parla della mancanza di lavoro e del ripetersi di incidenti a danno dei lavoratori. Sin qui si prova solo amarezza. La rabbia scatta dopo, tentando di metabolizzare la dichiarazione successiva: «dobbiamo riflettere sulle ragioni di questa crisi, dobbiamo soprattutto agire».
Sulle ragioni di questa crisi si può discutere, anche se proprio non capiamo cosa c’entri la crisi con la riduzione dei diritti, e come si possa combattere l’assenza di lavoro peggiorandone le condizioni complessive. È sull’azione che si prova panico, specie di fronte a una ministra di rudimentali abilità comunicative: una che dice che è abituata a lavorare in quanto piemontese, che il reddito minimo induce a consumare mollemente pasta al pomodoro, che parla dell’illusione del posto fisso, di paccate di miliardi, di caramelle distribuite, di esodati sparuti e riassorbibili come un ematoma, che minimizza costantemente lo stravolgimento strutturale dell’articolo 18. Che visita pure la Alenia per dimostrare che licenziare è cosa buona e giusta.
LaFornero dice che ha solo tolto “qualcosa” all’articolo 18, ma non lo ha smantellato. Peccato che quel qualcosa fosse la garanzia che impediva il licenziamento illegittimo, ora relegato nei meandri spettacolari della manifesta infondatezza del motivo economico. Le parole sono importanti: la ministra ci confonde con parole inutili e ci affonda cancellando quelle utili.
Cosa resta della Repubblica democratica fondata sul lavoro? Restiamo noi, scettici misoneisti nostalgicamente legati alla tutela dei diritti, alla prevalenza del valore della persona su quello del mercato, alla relazione forte tra garanzie e Stato sociale. Resta la consapevolezza del senso di uno Stato che dal lavoro nasce e con lo smantellamento del lavoro finisce, almeno nell’accezione in cui lo abbiamo inteso fino ad oggi. Per questo non possiamo dirci estranei o indifferenti alla tutela del lavoro contro la precarizzazione selvaggia in nome della crescita, contro la trasformazione della libertà in arbitrio di pochi e sacrificio di molti.
Nella festa del lavoro senza lavoro, chiediamo a Elsa Fornero di non commentare ciò che fa cercando di convincerci che lo fa per noi, poveri limitati obsoleti sognatori. Siamo sognatori e siamo anche un po’ utopisti, convinti come Dworkin che le utopie servano a segnare i limiti reali di ciò che è possibile. Una società fondata sulla dignità del lavoro è possibile: lo scrissero i Costituenti nel 1948, ponendo il lavoro a base dello Stato nato dalla lotta al fascismo. Lo scriviamo ogni giorno, ostinatamente, per difendere il lavoro da un mercato cannibale, da tecnici implacabili, dai diktat dei tagli e della flessibilità.
Non ci interessa un mondo diverso se la diversità è un universo diseguale di privilegiati e diseredati, di eletti e di reietti. Se si confonde la crescita con la libertà di licenziare, con salari sempre più bassi e pensionamenti remoti. Siamo conservatori: ci piacciono i diritti e non vogliamo cambiare. E oggi, a dispetto di tutto, vogliamo festeggiare il lavoro per non farlo morire.
La política di questo governo di destra radicale è molto chiaro. Per poter favorire l’accumulazione di ricchezza da parte di chi non la produce ha costantemente utilizzato il metodo (già usato dal prodismo e dal berlusconismo) di dividere le classi lavoratrici attraverso la storiella che i vecchi tolgono lavoro ai giovani che questi non possono avere un contratto stabile per le ruberie delle generazioni precedenti. La realtà storica è tutt’altra perché chi ha qualche anno si ricorda le stangatine di Andreotti che erano né più né meno come quelle di Monti, si ricorda che del proprio stipendio tra tasse e obblighi pensionistici se ne andava almeno la metà. Al tempo di Andreotti avevamo dei sindacati che ci restituivano, almeno in parte, le sovrattasse del governo e sempre in parte, l’inflazione generata da governi spendaccioni per i propri interessi né più né meno come quello presente. Anche al tempo del pentapartito ci raccontavano la storiella che l’inflazione era causata dalla scala mobile, cosa impossibile fisicamente, mentre era generata da eccesso di moneta creata da governi incapaci. Poi sono venuti i tecnici come Guido Carli che pensava di superare i problemi con l’eliminazione del potere politico dei politici con l’affidamento del signoraggio e la guida dell’economia ad una banca privata. Naturalmente siamo daccapo ed i problemi sono peggiorati per l’assenza di un vero sindacalismo, per la svolta reazionaria dei governi dal 1992 in poi e dal conflitto tra interessi degli stati e interessi delle banche.
Cerchiamo almeno di difenderci ricordandoci che la solidarietà tra le generazioni e le classi sociali sono stati il mezzo per risollevare il Paese da tutte le grandi crisi del ‘900 guerre incluse. Se viene spezzata questa che era la vera ricchezza dell’Italia saremo preda di questi politici che ci hanno venduti alla finanza internazionale alla quale stiamo pagando gli errori da loro commessi.