Anna Pulizzi per il Simplicissimus
Carri armati, munizioni, missili con relativi lanciatori e batterie di difesa aerea viaggiano dai paesi Nato verso l’Ucraina o stanno per farlo. In prospettiva, pare, anche velivoli da combattimento, cosa che costituirebbe il superamento dell’ennesima linea rossa tracciata da Mosca. Ma considerando che tutte quelle precedenti sono state bellamente superate dai governi occidentali senza che mal ne incogliesse, è non è azzardato pensare che anche questa volta alle parole seguiranno i fatti.
Tutta questa roba (tranne ovviamente i velivoli) può entrare in Ucraina ed attraversarla fino a ridosso del fronte percorrendo le linee ferroviarie e ciò avviene perché in buona parte queste funzionano ancora. Il mese scorso è arrivata a Kiev una delegazione della Confindustria nostrana, accompagnata dal ministro Urso, non a dorso di mulo bensì in treno. Prima di questa dall’inizio del conflitto sono passate oltre duecento delegazioni dei cobelligeranti occidentali e a breve pare transiterà pure il presidente del Consiglio Meloni (al maschile, come piace a lui). Tutta gente che va fin laggiù non perché spinta dal brivido dell’avventura, ma perché sa che potrà andare e venire senza inconvenienti.
Per carità, anche durante la precedente guerra mondiale c’erano in Germania linee ferroviarie che hanno funzionato fino alla fine delle ostilità. Ma all’epoca colpire un bersaglio dall’alto era molto più difficile, si mandavano intere squadriglie di bombardieri a sganciare l’ira di dio sperando che qualcosa colpisse gli obiettivi giusti e non sempre ciò accadeva. Oggi invece non è più così e si può centrare un ponte senza problemi, o una stazione, o altro. Volendo farlo.
Questa non vuol essere una critica al modus operandi dei comandi russi. Avranno i loro motivi per non fare cose diverse da quelle che già stanno facendo, ma è un fatto che permettere al nemico di ricevere rifornimenti significa regalargli la possibilità di resistere e di infliggere perdite.
Mistero, anche se non è certo l’unico. Ad esempio, limitandoci alle cose piccole (e agli uomini piccoli) i capoccia di Confindustria sono andati a Kiev per accordarsi circa le concessioni relative alla ricostruzione postbellica dell’Ucraina. Proposito singolare, visto che ancora non si sa che cosa resterà del paese dopo la guerra e fin dove i russi si spingeranno (sempre che si spingano). E comunque qualsiasi progetto che coinvolga l’attuale governo di quel paese rimane piuttosto aleatorio. O forse gli audaci viandanti hanno qualche strumento a noi ignoto per confidare in una soluzione politica del conflitto?
In questa guerra così come in ogni altra gli interessi economici hanno un peso determinante. Ad esempio se i valletti europei della Nato svuotano i loro arsenali per rifornire Kiev, dovranno poi rimpolparli facendo la spesa col carrello soprattutto presso gli empori dell’industria militare americana, cosa certamente gradita dalle parti di Biden e delle potenti camarille che lo manovrano.
Nel contempo l’automa Stoltenberg avverte che gli ucraini consumano più munizioni e perdono più mezzi di quanti ne ricevono ed esorta perciò ad aumentare le forniture militari. Questa guerra è uno strumento attraverso il quale gli Usa cercano di mettere una pezza alla loro terrificante situazione finanziaria e lo fanno saccheggiando le strutture produttive dei loro servi. Gettano la manifattura europea fuori mercato tagliandole sbocchi commerciali e rifornimenti energetici a basso costo, prima garantiti dalla Russia. Quindi ne attraggono investimenti e produzioni, perché si sa che il capitalismo non ha patria, o meglio la sceglie di volta in volta in funzione dei profitti realizzabili.
Quel che sta avvenendo è un formidabile travaso di ricchezza tra le due sponde dell’Atlantico, in direzione ovest, cosa resa possibile non tanto dalla guerra in sé quanto dal servilismo assoluto delle cancellerie europee, ove hanno dimora piatte figurine manovrabili e funzionari degli imperi finanziari temporaneamente prestati alla politica.
In tal modo si spiega il perché sia stato così facile trasformare tutti i governi Ue nei peggiori nemici dei popoli europei. E come sia possibile sabotare un gasdotto che garantiva la preminenza economica della Germania senza che il governo tedesco batta ciglio. Ciò nonostante, l’iniziale esitazione di Scholz riguardo ai Leopard fa sì che oltreatlantico siano piuttosto infastiditi da questo valletto che ha il vizio di scattare sull’attenti con qualche secondo di ritardo rispetto agli altri. Nell’arte del servilismo non è mai facile competere con i governi italiani.
Tutti possono capire, perfino con la testa di Stoltenberg, che non saranno poche centinaia di blindati o qualche stormo di caccia a costringere la Russia alla difensiva. Questi strumenti hanno una rilevanza sul piano politico prima ancora che su quello militare, poiché dimostrano che gli avvertimenti di Mosca possono essere bellamente ignorati senza patirne effetti indesiderati. Abbiamo udito già nel febbraio dell’anno scorso, per bocca nientemeno che di Putin, che chiunque avesse tentato di ostacolare le operazioni russe in Ucraina avrebbe subito conseguenze “che non si sono mai viste in tutta la sua storia”.
A qualcuno sembra forse che l’Occidente non stia “ostacolando le operazioni” russe? E dove sono le conseguenze apocalittiche? Non che io desideri un simile scenario, sia chiaro, ma le minacce sono come le promesse, se non le si può mantenere è meglio non farle.
In queste settimane sono stati notati effettivi britannici a est di Odessa, senza divisa ucraina ed evidentemente senza il timore che la loro sfacciata presenza possa provocare “cose mai viste prima”. Da qui alla partecipazione attiva di forze Nato, sia pure in funzione difensiva, il passo si fa sempre più breve.
Allora l’evoluzione qualitativa delle forniture militari ma ancor più la presenza sempre più consistente di effettivi occidentali, non può avere come obiettivo una vittoria militare sul campo, ma l’intensificazione del confronto potrebbe avere il fine di portare la Russia al bivio tra l’affrontare reparti Nato in territorio ucraino oppure porre fine all’offensiva. E se a quel punto Mosca optasse per la seconda soluzione, cosa probabile a giudicare dall’atteggiamento complessivo che ha tenuto finora, e se ciò accadesse prima di aver liberato del tutto le repubbliche del Donbass, sarebbe ben difficile per Putin dipingere tutta l’operazione con i colori della vittoria.
Il bilancio non sarebbe proprio roseo: l’Ucraina non sarebbe affatto denazificata, così come pubblicamente ci si riprometteva, né verrebbe installato a Kiev un governo neutrale o perlomeno non ostile nei confronti della Russia. E nemmeno si potrebbe più impedire il suo ingresso nella Nato, magari dopo aver sostituito l’ormai inutile Zelensky con qualche altro pupazzo in doppiopetto invece che in mimetica.
Da una simile soluzione Putin non ne uscirebbe proprio benissimo e le opposizioni avrebbero buon gioco nell’accusare il governo e gli alti comandi di una condotta delle operazioni dapprima superficiale, poi troppo cauta e in definitiva fallimentare. L’indebolimento di Putin, cui seguirebbe a ruota una sua uscita di scena poiché un personaggio di tale statura non può sopravvivere azzoppato, avrebbe conseguenze non misurabili sulla situazione interna del paese. Di certo egli ha incarnato per oltre un ventennio la rinascita russa sotto l’aspetto economico e dell’identità nazionale, e non può lasciare il palco a cavallo di un insuccesso senza ricadute politiche interne. Ovviamente un simile esito rientra pienamente negli obiettivi di Washington, che chiuderebbe così la partita in attivo senza aver perso un uomo e avendo intascato montagne di dollari dal saccheggio della sua periferia imperiale.
Ma c’è anche uno scenario assai meno lugubre, che vede le forze russe sfondare il fronte nemico e completare la liberazione della Novorossja, cosa che permetterebbe a Mosca di porre fine senza traumi alla “operazione speciale” annunciando il raggiungimento degli obiettivi prefissati, benché in origine le ambizioni russe fossero ben diverse. Ciò costituirebbe un’indubbia vittoria politica di Putin ed un boccone amaro per chi fin dal 2014 ha pianificato la crociata anti-russa. Ma ciò dipende in larga misura dalla capacità di impedire il rifornimento delle unità ucraine di prima linea nonché dall’impiego da parte russa di un numero di effettivi finalmente adeguato, tale da provocare il rapido collasso del sistema nemico. Va invece in senso opposto il proseguimento della guerra di posizione, il dover espugnare i ruderi di ogni centro abitato, come avviene ormai da sette mesi intorno ad Artemovsk, presagio di quel che può accadere in ogni successiva contrada.
Chi dà inizio ad un’operazione militare, specie se gode di una palese superiorità, ha sempre interesse a concluderla il più in fretta possibile, mentre ogni sosta ed ogni rallentamento favoriscono la parte avversa. Il tempo è un generale imbattibile ma volubile e bisogna assicurarsi che il nemico non riesca ad arruolarlo tra le proprie file.