800px-19191107-lenin_second_anniversary_october_revolution_moscowProprio ieri, il due marzo, ma di un secolo fa si apriva il congresso fondatore dell’Internazionale comunista, ovvero il Comintern (la dizione esatta sarebbe  Komintern da Kommunistische Internationale) che aveva l’ambizione di diffondere la rivoluzione a livello internazionale. L’incontro convocato da Vladimir Lenin cercava di unire i partiti comunisti emergenti che si erano separati dai loro progenitori socialdemocratici in una potente organizzazione centralizzata.  Traumatizzata dall’incapacità del movimento socialista di fermare gli orrori della prima guerra mondiale e ispirato dalla risolutezza dei bolscevichi questa terza internazionale nasceva dalla speranza che la rivoluzione  mondiale fosse una prospettiva immediata. In questa ingenua convinzione giocavano sostanzialmente quattro fattori: 1) lo stato quasi insurrezionale in cui si effettivamente trovavano molti territori degli ex imperi centrali (vedi nota); 2) il  divorzio dalla socialdemocrazia dopo l’assassinio di Rosa Luxemburg  e Karl Liebknecht  per mano di gruppi paramilitari agli ordini del governo di Berlino dopo l’insurrezione spartachista; 3) un fattore ideologico, ovvero il fatto che la rivoluzione si fosse affermata proprio dove non avrebbe dovuto esserci (Marx dedicò un intero saggio per dire che in Russia non ci sarebbe potuta essere una rivoluzione proletaria) e la convinzione che essa era alle porte in Paesi con una grande classe operaia; 4) ultimo, ma non ultimo, anzi l’elemento in un certo senso decisivo era il fatto che la neonata Unione Sovietica era sottoposta a un duro attacco militare ed economico da parte dei capitalisti occidentali e che le rivoluzioni in Europa l’avrebbero spezzato. 

Solo quest’ultimo obiettivo fu raggiunto sebbene indirettamente visto che la determinazione sovietica nel difendersi, i disordini in Europa che in qualche modo durano fino al 1923, la presenza effettiva di uno stato comunista che rischiava di radicalizzare quella parte di classe operaia conquista dalla socialdemocrazia, poco a poco fecero cessare l’assedio, almeno quello militare. Però dopo che nel ’23 fallì l’ultimo tentativo di rivoluzione in Germania sulla quale Mosca puntava quasi tutto (“L’avvento della rivoluzione in Germania è l’evento mondiale più importante del nostro tempo. La vittoria della rivoluzione tedesca avrà ancora più importanza per il proletariato dell’Europa e dell’America della vittoria della rivoluzione russa di sei anni fa”, scriveva Stalin) l’insieme dell’operato del Comintern finì per ottenere l’effetto inverso a quello voluto e sperato: dai trozskisti agli stalinisti, la nozione di una fallita rivoluzione causata da una leadership codarda divenne il vangelo del partito. Il mito rafforzò le tendenze verso un’ulteriore centralizzazione e quella che in seguito fu chiamata la bolscevizzazione dei partiti comunisti. A lungo termine gli effetti sono stati disastrosi perché hanno finito per consolidare una divisione tra comunisti e socialdemocratici che indeboliva notevolmente la resistenza dei movimenti operai, permettendo prima  la riuscita dell’impresa di Hitler, e poi nel dopoguerra delle macerie, la “cattura”  della socialdemocrazia da parte dell’ideologia capitalista, sancita a Bad Godesberg. Ma il fallimento ebbe effetti immediati all’interno della stessa Unione Sovietica, alimentando una lotta per il potere protratta nei ranghi più alti del Partito bolscevico. Diverse fazioni, non solo quelle di Stalin, sostenevano la ritirata strategica e il consolidamento dello stato sovietico. Con il passare del tempo, il Comintern è stato ridotto a uno strumento della politica estera sovietica, soggetta alla direzione politica centrale di Mosca fino ad essere sciolto nel ’43 in ossequio agli alleati. 

Tuttavia è rimasto un residuo, nonostante l’erosione del tempo e delle cose di quel momento alto della vicenda comunista, qualcosa che ormai prescinde dal dato di realtà e da speranze concrete come si era presentata un secolo fa, ma si ripropone in un certo qual senso come farsa, come internazionalismo disfunzionale che copia i contorni del globalismo neoliberista e finisce per farne il gioco, al punto da scambiare l’unità dei movimenti operai, meglio ancora di classe, forse non così scontata come vorrebbe la teoria, con l’unione oligarchica dell’Europa. Il problema invece  è comprendere cosa fare adesso e piuttosto che cercare di imparare direttamente dal Comintern, dovremmo imparare dalla sua posizione nella traiettoria del movimento socialista. Oggi la distinzione tra rivoluzione e riforma appare meno immediatamente rilevante e con livelli globali di lotta di classe e organizzazione ai minimi storici lo sforzo dovrebbe essere quello di “tirare a sinistra” le vittime del neoliberismo senza la puzza la naso di chi viene da lontano e non si vuole mischiare. Occorre insomma creare le condizioni per rendere possibile e visibile, prima di ogni altra cosa un’altra idea di società. Le argomentazioni del Comintern avevano implicazioni nel mondo reale un secolo fa perché la politica socialista si svolgeva nel mondo reale. La priorità deve essere raggiungere un luogo in cui il socialismo abbia di nuovo questo tipo di impatto. 

Nota Stato insurrezionale, ma certamente anche confusionale: basti pensare che nel 1919 anche Adolf Hitler cercò di iscriversi al partito comunista, ma la tessera gli venne rifiutata per eccesso di odio anti borghese.