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Le impronte del cinghiale

ITALY BERLUSCONI RECORDAnna Lombroso per il Simplicissimus

A volte succede di essere presi da misteriose nostalgie. Durante la visita di Obama, con l’intero ceto politico, l’informazione, quel che resta di opinionisti senza convinzioni, cronisti di costume, ecclesiastici, tutti ammirati e proni, mi è accaduto sorprendentemente di pensare a Craxi, a Sigonella, a quella ossessione di autonomia e a quella pervicace conservazione di una identità, strettamente intrecciata a una sovranità, per non essere più solo un vaso di coccio, un Paese gregario.

È un peccato che ormai la riflessione su grandi protagonisti – nel bene e nel male – spetti, per via di un uso politico della storia al servizio dell’agiografia, del revisionismo, della manomissione, a pessimi giornalisti, registi improvvisati, delfini ancora in lutto, se della resistenza si occupa Pansa,se ritrae Berlinguer colui che più di ogni altro ha tradito non solo principi ma anche l’idea di partito, di rappresentanza e di testimonianza del Pci, se la memoria del ruolo svolto da Craxi spetta al cognato, figura pateticamente minore e eternamente subordinata che in questi giorni  ha messo in scena una sua operina, una lettura intitolata “ Le ultime lettere di Benedetto, detto Bettino” ispirata nientepopodimeno che a Le ultime lettere di Jacopo Ortis, che parla del Craxi uomo e leader, dell’ascesa del monarca e dell’autunno del patriarca.

Ce ne sono di colpe che vanno attribuite a Bettino Craxi. A cominciare da un suo difetto, un vizio di natura, ammesso perfino da sua padre, ormai vecchio e ammirato della carriera inarrestabile del figlio, in una conversazione con mio papà, incollerito per l’ascesa di quel gorilla incline all’autoritarismo arrogante, alla iattanza smisurata, al cinismo orgoglioso, all’ostentato disincanto democratico. Mio figlio, disse, è intelligente, capace, ma non ha nessun senso dello Stato.

E in effetti dietro a una sua mitologia “patriottica” intrisa di leggende, Ghino di Tacco e Garibaldi, combinate con altre icone di un socialismo interpretato in chiave umanitaria, romantica e sentimentale: Babeuf, Proudhon, Turati, era palese quella concezione scissa dello Stato: ottima cosa quando spende e aiuta, pessima quando preleva, vincola, regola, che è diventata nei fatti pensiero comune e sistema di governo. Proprio come la sua rappresentazione “lombarda” dell’economia, distratta, elementare e ferma ai “tipi” dell’economia reale: la produzione, l’impresa, il business, e in suo nome istituzioni e amministrazione pubblica sono entità la cui interferenza è un male da sopportare, esprimendo indignazione anche rivoltosa, ma cui è meglio pagare un pedaggio perché si mostrino il meno possibile. In modo che invece che le azioni di chi amministra denaro pubblico e chi guadagna o gestisce denaro privato si intreccino in modo che l’economia non sopravviva senza appropriata e complice politica finanziaria, impiegando a questo scopo la combinazione stimolante come una droga e mortifera come un veleno, di ammortizzatori sociali, spesa pubblica deficitaria, svalutazioni monetarie.

È anche grazie a questo che ineluttabilmente si consolidano le due forme della politica, poi via via sempre più esaltate e esasperate, quella “visibile”, reclamizzata presso l’elettorato per vendere lì immagine più profittevole, l’altra “invisibile”, degli intrallazzi, della corruzione, dei pateracchi, dell’omertà, del torbido “da Turati a Turatello”.

Era già delineato quanto sarebbe avvenuto, compresa l’occupazione da parte di un leader autoproclamatosi per risolutezza, decisionismo, autoritarismo, dello spazio che i comunisti avevano lasciato vuoto, imitando e anticipando altri uomini della Provvidenza, energici e  capaci di risolvere situazioni drammatiche e ingarbugliate con scelte nette, qualita’  apprezzate, in un’Italia martoriata e disorientata non solo dalla crisi economica, ma anche dal terrorismo, fino a intraprendere la strada della trattativa nel caso Moro, fino alle sortite anti-atlantiche più o meno strumentali (come la bravata di Sigonella, conclusasi con la libertà concessa all’assassino di Klinghoffer, o, addirittura, con l’appoggio dato ai militari fascisti argentini nella guerra delle Falkland),  fino al beffardo disvelamento del disegno “regressivo” del PCI, quel compromesso storico, inteso a legittimare i comunisti italiani come forza di governo senza pagare il prezzo di un’esplicita rottura con le politiche dell’Unione Sovietica e autorizzando al tempo stesso i vizi inguaribili della Dc, compresa l’abitudine ad esercitare il potere non tanto attraverso lo strumento parlamentare quanto mediante l’uso improprio delle partecipazioni statali e attraverso il saccheggio clientelare della finanza pubblica.

Cesarismo, stravolgimento costituzionale grazie a quella “grande riforma dello stato” che doveva assicurare a una maggioranza parlamentare, ed eventualmente presidenziale, una stabilità e continuità di governo non soggetta alle estenuanti e paralizzanti trattative con l’opposizione, odio per il proporzionale e per il bicameralismo, restrizioni alla partecipazione, dileggio delle regole tanto da convertire iniziative sacrosante come il referendum per la responsabilità dei magistrati nelle premesse per una criminalizzazione del sistema giudiziario e per la produzione di leggi ad personam, personalizzazione della politica: anche accettando la versione più rozza del machiavellismo secondo cui “il fine giustifica i mezzi”, nella politica di Craxi si vedevano bensì i mezzi – la corsa al potere – ma non si distingueva più il fine, privatizzazione di un partito i cui gruppi dirigenti  erano divenuti ormai ai vari livelli i centri di distribuzione dei proventi della corruzione politica tra i partiti di governo, e non solo.

Tutto questo ha alimentato le scatole vuote di ideologia e idee di quelli che si sono poi succeduti. Con un danno aggiuntivo, far diventare la questione morale una questione giudiziaria, tanto da promuovere un distacco sempre meno colmabile tra cittadini e politica, tanto da avallare l’imitazione sia pure per difesa di comportamenti illegali, tanto da motivare la delega e consolidare l’irresponsabilità personale e collettiva.

Getta una luce inquietante sulla nostra natura e sulla nostra capacità di essere cittadini, il peso e l’influenza di un leader che ha condizionato la sua “era” e il ventennio successivo e l’oggi con circa il 10% dei voti. E ancora più allarmante è l’accondiscendenza che si dimostra verso le sue imitazioni.

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