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Il mitico piano Marshall: la prima bugia d’Europa

Man mano che diventa evidente come gli Usa stiano sacrificando l’Europa per conservare la loro egemonia, cominciano a riapparire sull’informazione  riferimenti al piano Marshall con il quale gli Usa avrebbero salvato e risollevato  l’Europa dopo la guerra. E di conseguenza si invocano nuovi piani Marshall per ogni cosa. Io stesso fin da bambino ne ho sentito parlare e sia pure indirettamente ne ho introiettato la mitologia fino a che non ho cominciato a vedere di cosa si trattava realmente:  di un aiuto economico ( in parte inviato non sotto forma di denaro, ma come aiuto alimentare o di altro genere) volto principalmente a evitare che i partiti comunisti crescessero troppo e ad aiutare invece quelli di fede capitalistica a vincere le elezioni. Per questo paradossalmente la parte del leone la fecero proprio le potenze che erano uscite formalmente vincitrici dal conflitto, ovvero Gran Bretagna e Francia  che intascarono complessivamente nei quattro anni del piano quasi 5 miliardi e 600 milioni dollari. Il resto- poco più di 7 miliardi  – fu diviso fra altri 14 paesi tra cui l’Italia che ottenne un miliardo e 204 milioni.

Ora è pur vero che i dollari valevano molto più di quelli attuali e che le cifre in gioco erano di tutto rispetto, ma occorre dire che il Pil italiano del tempo quando il Paese era l’ottava economia del mondo viaggiava sui 1500 miliardi  di dollari e dunque il piano Marshall non prevedeva sostanzialmente cifre molto diverse dal famigerato Pnrr, anche se concesse per quattro anni di seguito. Ma l’Italia, avendo avuto una Resistenza in gran parte  orientata su comunismo e socialismo ( in questo è stata davvero un unicum in Europa) e rischiando che queste forze si imponessero alle elezioni aveva avuto un trattamento privilegiato visto che occorrevano molti soldi per consentire alla Democrazia cristiana e agli partiti dello schieramento di vincere. In Germania che precedentemente aveva un pil di oltre 3500 miliardi dollari andarono appena 1 miliardo e 448 milioni totale. Ma il Paese era occupato e suddiviso in zone di influenza, dunque non c’era timore che potesse sfuggire alle grinfie dell’impero. Insomma fu un aiuto importante per uscire dalle rovine della guerra, ma non decisivo anche perché diretto in vari modi ad imporre l’egemonia americana piuttosto che essere utilizzato in maniera più mirata. Che il mitico piano avesse uno scopo principalmente politico è dimostrato dal fatto che esso coinvolse anche Paesi che erano stati occupati, ma erano rimasti pressoché intatti come Belgio,  Norvegia, Danimarca Islanda ed altri come  Portogallo e Islanda che nemmeno era stati sfiorati dal conflitto. Insomma il boom europeo degli anni ’50 non nasce certo da questa “regalia” come sostiene il mito, tanto che esso è stato molto più evidente proprio in Paesi come Germania e Italia che ne avevano usufruito di cifre più basse di altri.

In realtà quel piano attribuito al generale Marshall che si era semplicemente fatto latore di un’idea di Truman, corrispondeva alle stesse esigenze che oggi spingono Washington a preferire un suicidio dell’Europa piuttosto che vederla collegata al  mondo euroasiatico. Tali esigenze erano   sostanzialmente di tre tipi : la prima e più importante era ovviamente la creazione geografica di un campo economico omogeneo in funzione antisovietica: un blocco politicamente stabile proteso a combattere quella che si andava definendo come la Guerra fredda e che segnò i successivi 40 anni di vita internazionale. La seconda era la riorganizzazione dell’Occidente e il ritorno della dimensione “atlantica”  che si era persa con il collasso della prima globalizzazione naufragata nella Prima guerra mondiale: gli Usa speravano di creare un ottimo mercato per i propri prodotti. A quel tempo però c’era la divisione ideologica con l’Unione Sovietica, la Cina era ancora un Paese arretrato e lo stesso si poteva dire del resto dell’Asia: dunque non c’era alcuna possibilità o prospettiva che l’Europa potesse in qualche modo collegarsi col mondo che gli Usa volevano e vogliono dominare. La terza esigenza era il ristabilire le correnti di scambio attraverso l’atlantico che sarebbero state il motore di organizzazioni pensate ancora  a guerra in corso da Roosevelt (dall’Onu all’Fmi, dal Gatt alla Banca Mondiale), le quali avrebbero dato corpo all’idea di “governo del mondo” avendo la maggioranza relativa, per così dire, in ognuna di tali organismi.

C’era anche una quarta esigenza che non so quanto fosse lucidamente pensata: quella di utilizzare le ricadute del piano Marshall per la creazione di rapporti di forza che descrivevano anche attraverso il dollar standard il dominio egemonico degli Stati Uniti su un Occidente i cui confini dilatati avrebbero coinciso con l’affermazione delle strutture del capitalismo democratico. Per questo  Washington agì perché i Paesi dell’Europa occidentale – senza distinzione fra vinti e vincitori – si sedessero  al tavolo dell’Organizzazione per la cooperazione economica europea (Oece, l’antenato dell’Ocse), nata allora per riprogrammare il sistema produttivo continentale e renderlo funzionale all’ottimizzazione dei beni e dei fondi messi a disposizione dagli Stati Uniti. Si formò lì il processo d’integrazione europea, che fin da allora non fu mai un processo autonomo ma continuò a riconoscersi nelle istanze economiche e geopolitiche delle origini. Ora la disgregazione di tutto questo è in qualche modo necessaria a sostenere le medesime esigenze.

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