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Una città all’ultimo stadio

Anna Lombroso per il Simplicissimus

A volte mi stupisco da sola dell’accanimento che metto nel denunciare una scelta dell’establishment.
È di sicuro il caso dello Stadio della Roma, un’allegoria concreta del disprezzo che ci riservano le èlite riducendoci a marmaglia che si appaga dei circenses in mancanza di pane e di partecipazione alle decisioni che la riguarda. E poi come non farsi prendere dalla collera per l’ennesima macchina da intrallazzo, perfetta per la voracità di uno dei comparti più infiltrati da criminalità nera e corruzione, oggetto di una programmazione retrocessa a negoziato nel quel è destinato a perdere sempre il settore privato, e della quale ieri si magnificavano le qualità tecnologiche e ambientali, mentre viviamo un autunno carico di minacce, con un territorio abbandonato senza manutenzione e tribunali che incolpano i cittadini di non sapersi difendere dall’abominio e dagli oltraggi perpetrati dandosela a gambe dai luoghi natii.
Quella dello stadio della Roma, del Colosseo che l’ultimo reuccio neo separato pretendeva eterna celebrazione e ricompensa morale delle sue prestazioni tanto che da motivo del contendere di partiti e movimenti, divenne un’unica bandiera unificante della plebe romana e perfino laziale. Era stato l’unico proposito del primo candidato del Pd che inaugurò l’uso di rivendicare di non avere un programma ma solo un obiettivo, quello, in questo caso. Ed era stato il No fermo e tenace della candidata 5 stelle a farle conquistare con quel diniego un bella manciata di voti.. finchè però, una volta salita al Campidoglio, si arrese alle pressioni abbracciando la tesi della fatale indispensabilità del nuovo impianto al quale Senatus Populusque Romanus aveva diritto.
Il consumo di suolo, la pressione sul territorio e l’ambiente, dovevano anche allora per forza passare in secondo piano: erano in gioco la posizione e la reputazione del paese che avrebbero potuto essere rappresentati degnamente da un’opera di interesse pubblico, talmente cruciale da essere di continuo paventata come un’emergenza sociale da affrontare con i dovuti accorgimenti, con la necessaria celerità e soprattutto con l’applicazione di procedure semplificate come è doveroso fare in questi casi.
Ciononostante per via di scandali, malaffare, la lunga storia del progetto, che si può far risalire al 2012, quarto anno di regno di Alemanno, quando la dinastia dei cavalli proprietaria di Tor di Valle cede il suo ippodromo a Luca Parnasi che, con la sua Eurnova, concorda l’acquisto di un’area dalle enormi dimensioni, oltre 125 ettari, una volta e mezza l’estensione di Villa Borghese è punteggiata di ostacoli. Malgrado il mondo imprenditoriale, invogliato a replicare l’operazione, tifosi e stampa siano in estasi davanti alla megalomane magnificenza del progetto subito definito faraonico, l’opera stenta a tradursi in realtà pur godendo addirittura di una legge “ad personam”, la cosiddetta legge sugli stadi, nell’ambito della legge di stabilità,147/2013, che riconosce all’imprenditore interessato a realizzare un impianto sportivo, di garantirne gli effetti in termini di profitto. È il sistema tutto berlusconiano in grado di assicurare le varianti necessarie per autorizzare le cubature necessarie per edificare il Business Park, centri commerciali ed uffici direzionali, in aggiunta all’anfiteatro, ai residence e tanto per non farsi mancare niente, perfino tre torri alte da 200 metri e progettate dall’archistar Libeskind, che alla Capitale Morale ne ha realizzata solo una.
Così mentre si susseguono scandali, indagini giudiziarie, sofferenze bancarie, si aprono e chiudono le porte girevoli dei tribunali, mentre perfino i tecnici che negli anni hanno permesso e approvato interventi insensati sulle procedure di valutazione di impatto ambientale, legittimando a norma di legge deroghe, interpretazioni arbitrarie, tutte comunque volte a appagare gli appetiti del settore privato o delle grandi cordate miste, cominciano a esprimere dubbi sulla congruità dell’opera, sulla pressione che potrebbe esercitare su suolo e risorse, i decisori nazionali e locali cominciano a guardarsi intorno alla ricerca di una alternativa più praticabile e meno sfarzosa.
E questo spiega l’unanime bearsi per una soluzione più “frugale” come si addice a tempi agonistici, per via del mito della competitività in ogni dove, ma più penitenziali, malgrado il gioiellino, come lo definisce la Repubblica valga 582 milioni, che, recita il quotidiano “vedrà la luce nel 2027, anno del centenario della squadra giallorossa, portando benefici sul territorio per 4 miliardi di euro. Una somma che si spalmerà su Pietralata, su Roma e quindi sul Lazio…”.
Non dobbiamo preoccuparci, l’iniziativa fortemente voluta dalla dinastia di Thomas Daniel Friedkin, imprenditore statunitense, CEO di Gulf States Toyota Distributors e presidente della Roma, con un patrimonio stimato in 4,4 miliardi in dollari da Forbes, sarà coperta dai 150,6 milioni generosamente messi dai Friedkin, mentre altri 436 saranno coperti dal sistema bancario attraverso nuovi mutui. 336 milioni saranno investiti sull’opera, mentre 16,7 verranno indirizzati a “opere pubbliche”, viarie e infrastrutturali. A cominciare dai ponti ciclopedonali saranno tre: uno da via Livorno, uno dalla stazione Tiburtina e l’ultimo per collegare l’ospedale Pertini all’area dello stadio e ai parcheggi di cui pazienti potranno usufruire durante la settimana. La stazione Quintiliani, la più vicina all’impianto, sarà adeguata e secondo il sindaco potrebbe colorarsi di giallo e rosso, a far dimenticare le vergogne di Mondiali e Giochi del passato.
Che futuro radioso ci aspetta: un’arena per 61.891 spettatori uscendo dalla quale si trova una grande e salubre passeggiata verde. Ma ci sarà anche un secondo “polmone verde” 47 mila metri quadri con giochi per bambini, un anfiteatro all’aperto e un centro sportivo con 5 campi da tennis, altrettanti da padel, 3 da basket e 3 da calcetto, bar, ristori, con un itinerario all’insegna del Gusto che ormai non può mancare mai.
Unici a non farci la bocca pare siano i residenti di Pietralata: “Ma quale stadio? Dicono, questa è casa nostra, da qui non ce ne andiamo”, subito oggetto di reprimenda da parte della stampa di settore. Con che faccia si chiama casa un posto che si snoda tra palazzine fatiscenti, le baracche dei migranti di Baobab accampati e sullo sfondo uno ex sfasciacarrozze poi riconvertito in autosalone, un posto, superfluo dirlo, che merita un doveroso e salubre esproprio, il secondo dopo quello deciso per lo Sdo, in modo da confermare il destino del sito e dei suoi abitanti espulsi, mega parcheggio del grande circo del profitto, in modo che l’Italia riguadagni fiducia e buona reputazione primeggiando nell’Europa in procinto di investire 2,5 miliardi, soddisfando le rapaci voglie dei signori del cemento e del pallone.

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