Site icon il Simplicissimus

I valletti di lusso dell’Impero d’Occidente

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ridurre la lotta di classe a uno scontro di civiltà tra pulsioni irrazionali e emotive e valori progressisti e innovatori? Fatto!

Retrocedere la lotta antimperialista a vendetta irragionevole e risentito bisogno di risarcimento di soggetti inadeguati a raccogliere la sfida della modernità? Fatto!

Stabilire che non esiste alternativa allo statu quo e che dunque è  vantaggioso approfittare delle opportunità offerte dal sistema invece nel disperdere le forze in velleitari fermenti di rivendicazione sovranista e populista? Fatto!

In questi anni l’inanellarsi dei successi registrati dall’ideologia neoliberista ha subito un’accelerazione grazie all’occupazione dei cervelli delle caste intellettuali che hanno preferito convincersi che il “tradimento” e le sconfitte dei socialismi reali e di gran parte dei movimenti di liberazione anticoloniali dimostri che non c’è via virtuosa per le rivoluzioni e il riscatto degli sfruttati, condannati a svolte reazionarie e regressive, alla burocratizzazione, alla repressione e alla censura e consigliando che è preferibile ritirarsi dalla militanza attiva, rifugiarsi in accademia, atenei, studi e biblioteche, case editrici e redazioni.

Nei giorni scorsi  l’autorevole quotidiano francese in attesa dello scontro epocale Macron-Le Pen, ha pubblicato un appello sottoscritto da 80 prestigiose personalità, tra cui la giornalista israeliana Amira Hass, la scrittrice indiana Arundhati Roy, lo scrittore francomarocchino Tahar Ben Jelloun, il linguista statunitense Noam Chomsky e lo scrittore nigeriano premio Nobel Wole Soyinka, che esigono con toni vibranti l’impegno comune a appoggiare la “resistenza ucraina senza riserve”, a aiutare un popolo vittima di una  guerra di conquista condotta da Putin, il cui “esercito bombarda e distrugge le città, uccidendo migliaia di civili, come ha fatto in Cecenia e Siria”.

A scorrere i nomi in calce si capisce che i firmatari se ne intendono di aggressioni, invasioni, massacri, bombardamenti sui civili ridotti a necessari e incontrastabili effetti collaterali.

A parte i nomi più illustri, si tratta, per fare qualche esempio, di Gilbert Achcar politologo nato in Libano, ma professore di politica e relazioni internazionali all’Università di Parigi VIII, di Cengiz Aktar politologo, saggista e opinionista turco, ex direttore dell’UNHCR, europeista convinto che ha lavorato a lungo con la Commissione europea, o di Hala Alabdalla, siriana che viva a Parigi dove lavora come produttrice cinematografica di successo e che si impegna a tenere viva la memoria della patria lontana, di Brigitte Allal, coautrice del “Manifesto delle libertà”, pubblicato il giorno dopo le manifestazioni per il velo da intellettuali di origine araba “esasperati dai diktat dell’islamismo”.

C’è Karima Berger, scrittrice algerina, che vive in Francia dal 1975, dove ha conseguito un dottorato in scienze politiche, c’è Karim Emile Bitar, nato in Libia, Associate Research Fellow presso l’Istituto per gli Affari Internazionali e Strategici di Parigi e professore di Relazioni internazionali e di Storia del pensiero politico in diverse Grandes Ecoles francesi, e ci sono Kamel Daoud, premio Goncourt, nato in Algeria e vittima di una doppia fatwa, accusato di apostasia dagli imam e di islamofobia dagli intellettuali del suo paese, o Salam Kawakibi siriano,  direttore del Centro arabo per la ricerca e gli studi politici di Parigi, o Mohammad Ali Amir-Moezzi nato a Teheran, islamista e docente, oggi cittadino francese, la cui ricerca è concentrata  sul ruolo dello sciismo nel mondo accademico occidentale.

Tutti concordano sulle  responsabilità delle grandi e piccole potenze occidentali nella devastazione del nostro mondo, rivendicando la denuncia delle guerre che hanno condotto per garantire l’eternità del loro dominio su vaste regioni, incluse le loro, e di aver “condannato la loro difesa di dittature indifendibili per proteggere i loro interessi”.

Ciononostante, proclamano, “non sbagliamo la battaglia. Tutti e tutte coloro che rivendicano per sé la libertà, che credono nel diritto dei cittadini di scegliere i propri leader e di rifiutare la tirannia, oggi devono schierarsi con gli ucraini”.

Fin troppo facile reclamare a ritroso e oggi, lo stesso impegno per Afghanistan, Palestina, Somalia, Yemen, per i paesi latino americani nei quali il tallone di ferro Usa/Cia comprime le libertà della gente, si allea con il narco traffico, commercia in esseri umani, e la stessa fermezza nei confronti di un’Europa che grazie al vincolo indissolubile con la Nato è entrata in guerra nel suo cuore nel 1999 e oggi in Ucraina, come azioni belliche svolte in contemporanea con il conflitto alimentato contro le sovranità e le democrazie  nazionali, declinazione interna delle procedure e delle strategie coloniali di sfruttamento di risorse, spostamento di popolazioni allo scopo di trasformarle in eserciti di merce lavoro indirizzati dove vuole il padronato globale.

La presa di posizione e la collocazione di questi augusti pensatori si rivelano nella frase centrale del documento: “nella maggior parte dei nostri Paesi, tuttavia, una fetta troppo grande dell’opinione pubblica si è schierata con il dittatore russo. In nome di un antimperialismo che negli anni si è trasformato in odio appassionato, si applaude chiunque si opponga all’Occidente”.

Ecco qua svelato l’arcano.

Si deve obbligatoriamente stare dalla parte di una marionetta manovrata da oltreoceano che sta portando il suo popolo a fame, lutti, dolore, umiliazione dopo averne fatto la mecca dell’utero in affitto, una nazione dissanguata da una élite spregiudicata di affaristi corrotti che campa della paga delle donne emigrate, dove il primo atto del presidente democraticamente eletto dopo un golpe e una lunga azione di emarginazione e persecuzione di una minoranza è stata la promulgazione di una legge razziale, quella “Legge sui popoli autoctoni“, con la quale si riconosce, de facto, il godimento dei Diritti dell’uomo e del cittadino e delle Libertà Fondamentali solo agli ucraini di origine scandinava o germanica, escludendo i russofoni.

Dove il 4% del Pil è costituito dalle spese militare, dove si reclama una carità di 7 miliardi a mese per la ricostruzione di una guerra che a cominciare dal premier per finire ai burattini di Biden nessuno vuole interrompere con atti di pace. E dove non si festeggia la liberazione dal nazifascismo, ma il compleanno di Stepan Bandera e dove l’esercito di popolo conta militanti neonazisti oltre a contractor, mercenari e “tecnici” statunitensi e delle truppe Nato.

Ora sarebbe ingiusto accusare i firmatari dell’accorato appello di apostasia, di abiura di radici tradizionali e di revisionismo in merito alle vicende dei loro paesi d’origine.

Ma è legittimo chiedersi a cosa servano le lezioni morali di intellettuali ben accomodati in sedi prestigiose, integrati perfettamente in un sistema culturale completamente assoggettato al pensiero mainstream, al servizio dell’ideologia totalitari che riconosce all’Occidente, malgrado le note e ben descritte “debolezze”, una superiorità morale e ideale, che va difesa anche quando imbraccia le armi perché deve essere riconosciuto il suo ruolo di baluardo dei diritti civili, anche se demolisce quelli sociali fondamentali, la sua funzione di custodia del libero mercato, come se costringere un insieme di stati a comprare in regime di monopolio combustibili e prodotti energetici cari e ambientalmente incompatibili rappresentasse l’atto di fede nelle sorti progressive della teocrazia economica e finanziaria dei banditi di Wall Street.

Si sono messi in 80, illustri e ben posizionati, per denigrare le lotte contro il nazifascismo, retrocesse a fermenti locali promossi e finanziati benevolmente dagli alleati, in modo che se ne disperdesse la qualità rivoluzionaria e la potenza ideale,  e per delegittimare le lotte di liberazione di oggi, quelle anticolonialiste e antimperialiste dei popoli che sanno riconoscere chi è il nemico di sempre e chi sono i suoi valletti.

Exit mobile version