Anna Lombroso per il Simplicissimus

Non so quasi nulla di Alessandro Orsini e immagino che se il conflitto non deflagrerà e non spazzerà via tutta la paccottiglia che ogni giorno viene conferita nella discarica della cronaca, tra un anno o poco più finirà anche lui nel dimenticatoio insieme ai vincitori di Sanremo e alle miss Italia, alle quali è stato concesso dire che volevano la pace nel mondo, auspicio oggi ridicolizzato e interdetto.

Ma grazie alle polemiche di questi giorni intorno alle sue esternazioni, ho almeno tratto la conclusione che la dinastia da cui discende doveva essere caratterizzata da un certa precocità genitoriale, se lui ha 47 anni e suo nonno a detta dell’ovviologo Gramellini, ha potuto essere felice durante in fascismo, mentre l’aritmetica, considerata una scienza certa quanto l’infettivologia e la statistica, farebbe pensare che il gaio giovinetto corresse sul velocipede  e giocasse con il cerchio nel primo ventennio del Novecento. E difatti Orsini  ha invece detto “mio nonno  ha avuto un’infanzia felice anche se l’Italia non era una democrazia liberale”.

Incuranti di questa osservazione elementare sulle tempistiche, molti hanno aperto il dibattito sulla possibilità per i ragazzini di ogni epoca di essere spensierati mentre imperversavano le scorrerie dei lanzichenecchi,  durante i conflitti tra ugonotti e cattolici, o quando si scontravano imperatori e papi, o mentre scoppiavano cruenti conflitti per le successioni o per appagare le bulimie espansionistiche dei soliti attori in tragedia, o quando regimi autoritari e repressivi assassinavano o incarceravano i dissidenti, portavano alla fame e alla rovina popolazioni e le trascinavano in guerra.

In maniera un po’ grossolana la risposta ci sarebbe come a ogni quesito di carattere esistenziale, perché sarà vero che anche i ricchi piangono, ma se ti capita di abitare in casa Buddenbrook dove l’acme della costrizione è recitare il Canto domenicale del pastore, o vestire alla marinara in casa Agnelli, o prendere il tè nella terrazza dei Carandini Albertini, le probabilità di vivere lietamente gli anni dell’infanzia sono superiori che se sei figlio di un bracciante e di una mondina, fatto salvo se per caso ti chiami Finzi Contini e, ad onta della villa urbana, del giardino lussureggiante e del campo da tennis, scopri che puoi essere anche tu esposto a rischi quando si scatena un’apocalisse che purtroppo può sempre ripetersi.

Però un altro requisito che potrebbe permettere ai bambini di vivere serenamente sotto un tallone di ferro è costituito dalla scelta dei famigliari di assecondare l’aria che tira, di non mischiarsi nelle faccende dei “grandi”, di sottoscrivere un patto di obbedienza che garantisca di starsene in pace, godersi i miseri frutti del conformismo e della soggezione, iscrivere i figli all’opera Balilla e le femmine alle Piccole Italiane e oggi al corpo delle sardine o alle brigate dei gretini, in modo che si compiacciano di vivere le loro giornate particolari.

Certo anche in questo caso può prodursi qualcosa  di non proprio imponderabile, visto l’andamento della storia, che i babbi vengano chiamati al fronte, che le mamme imbraccino il fucile e facciano le staffette, che ti bombardino la scuola gli aerei alleati, che arrivino fascisti e tedeschi al tuo paesello di Sant’Anna di Stazzema a interrompere  i giocondi riti dell’infanzia.

E allora tocca proprio  dar ragione a Orsini quando sostiene che  per un bambino “è meglio vivere sotto una dittatura che morire sotto le bombe”,   che sulle ragioni delle superpotenze  dovrebbe invece avere il sopravvento la Ragione che mette al primo posto le vite della gente, di quelli che non hanno scelto di essere martiri o eroi e che hanno la sfortuna di  essere a Marzabotto, in Vietnam, in Siria, in Afghanistan, a Gaza, oltre che a Mariupol

Paradossalmente la pensa come lui, la decana del giornalismo roseo-progressista Natalia Aspesi intervistata col chiaro intento di aggiungerla alla schiera dei detrattori di chi ritiene che  un capo di stato che manda al macello i suoi cittadini per appagare il suo delirio di onnipotenza e la sua smania di protagonismo, dovrebbe essere disarmato, e che invece dichiara col candore di chi ha perso ogni freno inibitore, per età o per prestigio, di avere avuto una vita normale in quegli anni lontani: “facevo le medie, andavo a scuola, andavo a pattinare. racconta, Quand’è finita la guerra avevo quindici anni, avevo già avuto l’adolescenza, le danze, i flirt”. Aveva  un solo problema: “ non mangiavamo, confessa, perché non c’era da mangiare. Quindi, oltre a essere magrissima, il che rimpiango, avevo sempre fame… Forse è anche che dove abitavamo noi non c’era tanta devastazione”.

Grazie a queste memoriette, la sua, quella del patriarca di Repubblica, che ebbe a raccontare il suo orgoglio di giovinetto italico quando ascoltò la dichiarazione di guerra sotto al balcone di Piazza Venezia, si capisce come mai il fascismo ebbe quella presa incontrastata e perché è stato possibile per anni rimuovere l’oscena memoria dei suoi crimini, se festosi quasi centenari si abbandonano alla dolce nostalgia di una vita familiare protetta dalla volontà accidiosa di non sapere, non conoscere, non prendere parte, allo scopo di tutelare miserabili interessi fino alla complicità  più disonorevole.

Così si capisce meglio che perfino un’ex deportata solleciti a cantare Bella Ciao con la mente rivolta a Kiev e alle sue truppe orgogliosamente ornate dei simboli del nazismo, che il compagno di merendine di Prodi, Parisi, chieda lo scioglimento morale dell’Anpi per mancanza di partigiani doc, colpevolmente morti quindi esentati dal rispondere del fatto che i resistenti rossi  erano convinti chela lotta al nazifascismo fosse solo il preludio all’avvento dello stalinismo”, motivo per cui  “non esitarono ad eliminare partigiani bianchi, monarchici, liberali e persino socialisti”, e che quindi si possa ormai dire che il processo revisionista e negazionista della storia è compiuto con la stessa indecorosa smania manipolatrice e menzognera di Pansa o Montanelli o Giordano Bruno Guerri.

Così si capisce che la vispa di nome e di fatto Teresa Simeone che rivendica la sua iscrizione all’Anpi da quando si aprì ai non protagonisti della Resistenza, nel dibattersi come il fatidico pesce in barile – manca solo che certifichi le avvenute vaccinazioni –  possa scrivere, pur condannando la politica di riarmo, che, dopo che ci hanno detto per due anni che la vita è più importante della libertà, sorprendentemente “c’è qualcosa di più importante senza la quale la vita sarebbe vuota di senso: la libertà. È per la libertà che tanti partigiani hanno combattuto e perso la vita”. In modo da legittimare il paragone con la lotta per il riscatto dei nostri partigiani: “ il coraggio degli ucraini è qualcosa che ne ha innalzato il valore civile agli occhi di tutto il mondo e non si può non riconoscere. Non è neppure giusto…addossare, come fanno in molti, al leader ucraino la responsabilità delle vittime o infangarne il nome, sminuendone la capacità resistenziale”.

Così si intende lo spirito dell’appello di 80 intellettuali di tutto il mondo – tra cui la giornalista israeliana Amira Hass, la scrittrice indiana Arundhati Roy, lo scrittore francomarocchino Tahar Ben Jelloun, il linguista statunitense Noam Chomsky, lo scrittore nigeriano premio Nobel Wole Soyinka –lanciato dalle pagine di Le Monde per appoggiare la resistenza ucraina “senza riserve” e per contrastare “quell’antimperialismo che negli anni si è trasformato in odio appassionato e che applaude chiunque si opponga all’Occidente”. Insomma, proclamano,  “tutti e tutte coloro che rivendicano per sé la libertà, che credono nel diritto dei cittadini di scegliere i propri leader e di rifiutare la tirannia, oggi devono schierarsi con gli ucraini”.

Come se Chomsky o Secchin o Ben Jelloun possano non sapere che la democrazia ucraina è nata da un golpe, che il primo atto del libero governo indipendente è stato proibire la lingua russa, che non c’è libertà dove vige la necessità e dunque uno Stato nel quale una élite sfrutta e dissipa le formidabili risorse e l’unica fonte di reddito per la popolazione consiste nei guadagni delle emigranti, che il presidente martire ha pensato bene di estromettere dal parlamento gli eletti dell’opposizione.

Il fatto è che tutto, a cominciare dall’interpretazione della vicenda resistenziale unicamente come di una lotta di liberazione dallo straniero invasore fino a pochi giorni prima fiducioso alleato, per cancellare la sua volontà politica, civile e morale di realizzare una società giusta, equa, solidale, congiura nel voler dimostrare che i popoli devono accettare un destino subalterno, una condanna alla rinuncia di diritti e prerogative in cambio della sicurezza garantita dalle armi e dai sacrifici per riempirne gli arsenali, di un benessere sempre più miserevole e condizionato, dell’abdicazione del futuro per loro e i loro ragazzini condannati a obbedire a obblighi e a subire ricatti fin dall’infanzia.