Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ieri per l’ennesima volta i segugi del volonteroso debunking, in inglese come tutte le azioni benefiche di tutela della civiltà superiore, mi hanno stanata e condannata all’invisibilità su Facebook per via della pubblicazione del mio post sulla campagna di advertising promossa e sostenuta dagli imprenditori della guerra, nel gruppo privato del quale sono amministratrice e che riporta regolarmente gli articoli di questo blog.

I vigilantes mi hanno imputato di aver violato le regole della “comunità”, ma non basta, la colpa vera è di aver divulgato fake news, che peraltro avevo tratto dalla cartella stampa dell’agenzia che ha curato l’iniziativa “sii coraggioso come l’Ucraina”.

Siamo davvero finiti male: da due anni siamo stati costretti a diventare partigiani  della verità sfiatandoci nella clandestinità per denunciare falsificazioni, menzogne e manipolazioni della gestione pandemica, fatte circolare sfrontatamente grazie al ricorso alla censura, all’oscuramento delle fonti definite antiscientifiche, alla demolizione di soggetti autorevoli appartenenti alla comunità medica, al linciaggio morale cui sono stati sottoposti filosofi, storici, costituzionalisti che mettevano in guardia  sulla fatale instaurazione di un regime basato su uno stato di eccezione che avrebbe reso perenne l’emergenza.

Allora come oggi che l’emergenza da sanitaria è diventata stato di guerra dichiarato, i mercenari al servizio della realtà contraffatta si prodigano per smascherare  “il complottismo che si è diffuso negli ultimi due anni con la pandemia”,  e che ha preparato “il terreno fertile per i nuovi complottisti: quelli della guerra”.

L’impareggiabile MicroMega ha incaricato quindi il suo tuttofare Nicolosi momentaneamente distolto dalla sua opera instancabile di cronista sul campo a Kiev, di intrattenersi a margine del Festival Internazionale del Giornalismo svoltosi a Perugia con tal Camilla Vagnozzi di Facta, un sito che fa parte dell’International Fact-Checking Network “per parlare di fact-checking e debunking in questo momento storico nel quale ogni giorno assistiamo a polemiche sulle notizie”.

Non se lo fa dire due volte, la Vagnozzi, che subito attribuisce il proliferare malsano del complottismo e della sfiducia nei confronti della stampa ufficiale, alla paura, che, purtroppo sembra dire, è calata per quanto riguarda la percezione nella minaccia virale, sostituita da quella di un conflitto che potrebbe diventare distruttivo e che spinge a cercare spiegazioni semplicistiche, come un nuovo oppio dei popoli capace di offrire risposte facili e rozze a un popolo ignorante, dominato dall’emotività e che preferisce affidarsi “a teorie che non hanno riscontro nella realtà e nella scienza”.

Nel ripercorrere con fierezza la breve storia della sua  organizzazione, nata nel 2020 e che quindi non possiede “i termini di paragone con altre guerre”, perché pare non si possano definire tali il teatro bellico della Palestina, dello Yemen, della Siria (1.037 morti nel 2022), dell’Iraq (267 morti), dello Yemen (5.099 morti), della regione del Tigrai, dell’Etiopia (410 morti), della Birmania, dove dall’inizio dell’anno ci sono state 3.846 vittime, la vestale dell’oggettività porta come referenza il lavoro compiuto su fatti di Bucha effettuato  grazie all’incontestabile ricostruzione del New York Times, fonte che possiede tutte le caratteristiche di terzietà e obiettività necessarie “eppure oggetto di dubbi  e sospetti dei lettori e degli utenti dei social network”.

Inutile dire che  la “ricostruzione” si basa sulla veridicità indiscutibile di una foto diffusa su scala mondiale, e presentata quale prova di un “crimine di guerra commesso dalla truppe russe in Ucraina”, che ad esami tecnici  di pari attendibilità è risultato essere stata scattata non il 19 marzo, bensì l’1 aprile quando cioè le truppe  avevano lasciata la città da due giorni.  Inoltre, l’esame delle foto dei cadaveri effettuato da esperti forensi indipendenti confermano i sospetti di una messinscena, confermati dalle dichiarazioni del sindaco che il 31 marzo dichiara che nella sua città non ci sono stati morti.

Ma nulla può scalfire le certezze degli apostoli del debunking, aiutati da una nuova generazione di delatori e spioni investiti dalla stessa nobile missione e che circolano sui social a fare il loro sporco lavoro:   Facebook, prima di tutto, ma anche Twitter, Instagram e Tik Tok,  e facendo arrivare a Facta più di 70 segnalazioni al giorno.

In due anni si è fatta carta straccia delle preoccupazione di associazioni di cittadini, ma anche di organizzazioni internazionali tra i quali si possono annoverare perfino Unesco, Onu, Osce, che hanno prodotto analisi e dichiarazioni comuni (l’ultima è del 2019) denunciando i rischi di legislazioni anti-fake news, come le più preoccupanti minacce alla libertà di stampa e come blocco e filtraggio di dati e informazioni siano incompatibili con le elementari regole della democrazia.

Tanto che un parlamentare norvegese sta conducendo una battaglia perché ai cacciatori di fact checkers venga dato il Nobel per la pace, proposta che potrebbe incontrare il consenso incondizionato di Stampa, Repubblica Corriere, o dell’Ansa che ieri pubblicava la notizia che i russi in fuga, sic, hanno infilato delle bombe nelle lavatrici ucraine al posto del Dixan, tutti entusiasti che si riconosca la funzione civile e morale di chi assolve Open, che, come ha denunciato Panorama ha collezionato 4 fake news accertate in 3 giorni, per far cadere la mannaia della censura sui pochi giornalisti che non rinunciano al loro ruolo, sugli opinionisti che non si esonerano dall’uso della ragione, sui lettori che condividono dati e informazioni dichiaratamente libere da condizionamenti.

Poco ci vuole a capire chi sono, da che parte stanno e anche chi finanzia queste organizzazioni ad alto contenuto pedagogico che si accreditano come indipendenti e che vogliono persuadere i cittadini del dovere di credere a chi ci raccomanda di sacrificarci per battere le  “truppe ‘asiatiche’ di Putin”,   “macellai”, massacratori, stupratori,  che scappano davanti all’eroismo  degli ucraini armati da noi pe tutelare la nostro comune civiltà, che sfogano sui civili la loro ferocia, trucidando e facendo a brani vecchi, donne e bambini, come indottrina il direttore di MicroMega nelle sue oscene accuse all’Anpi e ai putinisti.

Tutte a vario titolo gravitano intorno a quel che resta dell’ente governativo che dobbiamo al governo Conte, quell’Unità per il monitoraggio contro la diffusione delle fake news, “un organismo molto snello, molto smart, collegato ai cittadini, che servirà per smontare e smascherare queste notizie false che possono determinare un danno alla nostra società, alla coesione sociale, vorrei dire anche alla qualità stessa della democrazia”, come ebbe a dire il suo promotore, l’ex segretario Martella, e poi alla Commissione parlamentare sulle fake news, anche quella incaricata della legittimazione morale della censura esercitata contro l’informazione indipendente, che minaccia la realtà parallela mostrata dagli editori che usano i loro giornali come strumenti di propaganda per i loro comparti bellici strategici, dal servizio pubblico retrocesso a house organ del governo e fino a ieri delle case farmaceutiche.

Chi li paga? Ogni sospetto è lecito se si pensa che proprio Facta nasce come progetto pilota firmato Facebook e Pagella Politica “per il contrasto alla disinformazione sul coronavirus”, tanto da dotarsi di un numero WatsApp nel quale  si potevano e possono registrare segnalazioni riguardanti la pandemia, con particolare interesse per quelle sulle terapie domiciliati e gli effetti dei vaccini.

E aderisce ai “principi istitutivi” del  Poynter Institute, società americana leader nel settore del giornalismo  finanziata tra l’altro  con una donazione di 11.3 milioni di dollari da parte della Open Society di Soros  e da un altro milione di dollari da parte dell’imprenditore e filantropo, in Russia lo chiamerebbero oligarca,  Craig Newmark. Superfluo aggiungere che tra gli sponsor del Poynter Institute  spiccano la Fondazione Gates, Google, e la Omidyar Network , l’impresa di “investimento filantropico” del fondatore di Ebay, Pierre Omidy.

Ormai citare Orwell non è solo banale, è superato dai fatti e dalla potenza codarda e turpe dei funzionari e della sbirraglia del Miniver  globale