Anna Pulizzi per il Simplicissimus 

Secondo alcuni osservatori militari l’esercito ucraino avrebbe ancora circa un mese di autonomia, dopodiché i suoi resti frammentati non potrebbero far altro che asserragliarsi nelle maggiori città trasformandole in altrettante Stalingrado, laddove la linea del fronte si misura in isolati e per avanzare occorre aprire il fuoco tra pianerottoli del medesimo stabile. Tale calcolo tiene conto del bilancio tra perdite e rifornimenti, quindi è una previsione da prendere con le pinze, specie dopo aver notato lo scarso valore dei pronostici iniziali. Sta succedendo infatti qualcosa di apparentemente paradossale e l’armata più quotata del pianeta trova difficoltà ad avanzare localmente di pochi km mantenendo saldamente il territorio conquistato, come se ogni spunto offensivo fosse lasciato a reparti numericamente insufficienti, che espongono i fianchi nell’eseguire un affondo e devono poi tornare alle posizioni di partenza nei giorni successivi. Non è dato sapere quanto ciò influisca sul morale delle truppe russe, che al pari di chiunque altro si attendevano una dinamica degli eventi assai diversa, ma di certo non può essere una situazione entusiasmante.

Si dirà che la guerra di oggi non è più quella di ottant’anni fa, e che anzi talvolta somiglia più a quella di vent’anni prima. Rispetto al passato le armi a corto raggio di cui sono dotate le fanterie possono limitare fortemente l’efficacia dei reparti corazzati e senza l’apporto di questi ultimi la linea del fronte torna a spostarsi più o meno alla velocità dell’uomo appiedato. Ed è pur vero che l’arma aerea è dotata di strumenti che sulla breve distanza hanno reso ormai obsoleta l’artiglieria, mentre nell’azione in profondità permettono di individuare e colpire gli obiettivi con estrema precisione, ma se lo scontro avviene in un centro abitato la faccenda diventa lunga e dolorosa, specie per chi vi abita. In questo caso superiori mobilità e tecnologia servono a poco e bisogna stanare i difensori rione dopo rione, cosicché a pesare sulla bilancia è il rapporto tra le due parti in termini di numero di militari impiegati. Dopo il balzo iniziale, perlopiù in aree poco difendibili come il triangolo settentrionale degli oblast di Sumy e Cernigov, o come quello meridionale tra Kherson e Melitopol, l’avanzata russa ha iniziato a rallentare ai primi di marzo e per il resto del mese ha assunto sempre più le caratteristiche di una guerra di posizione, mentre in questi giorni si registrano addirittura controffensive ucraine in diversi settori contemporaneamente (Sumy, Kiev, Kherson) che magari non sono nulla più che azioni di alleggerimento ma che comunque pesano a livello sia mediatico che politico.

Come diceva Confucio, chi insegue due conigli non ne prenderà nessuno. Ma i comandi russi hanno deciso di premere contemporaneamente lungo tutti i settori invece di concentrare le forze in pochi punti per garantirsi localmente una superiorità netta. Non sono certo assiomi che un qualsiasi comandante può ignorare. Un osservatore esterno fatica a comprenderne le ragioni. Risulta inoltre evidente la sproporzione tra gli obiettivi della campagna e il numero di effettivi ritenuti sufficienti per conseguirli. Poiché se anche il governo russo non ha mai dichiarato di voler occupare tutta l’Ucraina, va da sé che la ‘denazificazione’ del paese ed il suo riposizionamento geopolitico presuppongono come minimo il controllo dei centri maggiori nonché l’annullamento della sua capacità di resistenza. Considerando che Kiev poteva contare su almeno centomila uomini e che altrettanti ne avrebbe mobilitati per affrontare la situazione di emergenza, la scelta russa di impiegarne all’incirca lo stesso numero poteva dipendere solo dalla convinzione che buona parte dei difensori si sarebbe volatilizzata alla prima sparatoria e in guerra l’eccessiva fiducia provoca spesso cocenti delusioni.

Durante la prima guerra del Golfo, per la riconquista del piccolo Kuwait la coalizione a guida Usa schierò oltre mezzo milione di uomini. Poi alla successiva guerra nella medesima area gli americani pensarono fosse sufficiente utilizzarne la metà, occuparono l’Irak in un mese e mezzo ma non riuscirono a vincere la resistenza locale, finché dopo otto anni e migliaia di perdite furono costretti ad andarsene. Stessa cosa in Afghanistan, un po’ più grande dell’Ucraina, 180mila effettivi al netto del ricostituito esercito afghano. E situazione analoga nello Yemen, dove la guerriglia locale tiene bellamente testa ad un esercito di 170mila uomini della coalizione sunnita armata dai maggiori paesi occidentali. Oddio, godendo di un’assoluta superiorità aerea si può anche fare una guerra guardando il nemico solo dall’alto, come fecero gli Usa contro la Serbia, piegandola dopo ottanta giorni di bombardamenti indiscriminati ma senza mai osare mettere i piedi a terra per misurarsi sul campo. Per essere ragionevolmente sicuri di poter sostenere un’offensiva sul terreno occorre schierare forze di gran lunga superiori a quelle nemiche, in un rapporto minimo di 3:1 dando retta ai manuali di strategia. Ovviamente la storia è piena di eventi che dimostrano quanto tali stime siano teoriche, poiché ogni conflitto è soggetto ad una serie di variabili riguardanti l’abilità dei comandi, il morale dei combattenti, lo stato dei rifornimenti etc. Tanto per fare un esempio tra i più eclatanti, all’inizio del ‘41 le forze italiane persero mezza Libia pur avendo cinque volte gli effettivi dei britannici.

Si obietta da più parti che i russi non avevano alcuna intenzione di catturare le maggiori città ucraine, dovendo poi occuparsi del sostentamento di milioni di civili. Resta però il fatto che gli attaccanti si sono spinti fin nei sobborghi di Kiev e di Charkov, incontrando da lì in avanti una resistenza superabile solo provocando perdite enormi tra la popolazione civile, ostaggio lì come a Mariupol ed altrove delle milizie ucraine. E’ difficile pensare che in caso contrario i russi si sarebbero astenuti dal prendere possesso di obiettivi così importanti, è più logico ritenere che non abbiano assegnato forze sufficienti per farlo. Il fatto che i vertici politici ucraini abbiano accettato di trattare per giungere alla fine delle ostilità dimostra comunque che sono consapevoli di non poter né uscire vincitori né resistere all’infinito, dopo aver capito con forte ritardo che gli Usa ed i loro vassalli non sarebbero intervenuti direttamente. Costoro hanno al loro arco altre frecce, alcune delle quali passano dal Caucaso e dalla Scandinavia. Armando l’Ucraina fino ai denti hanno praticamente obbligato Putin ad intervenire, ma possono tentare qualcosa di analogo in Azerbaijan inserendo così un grosso cuneo nelle instabili ma preziose relazioni russo-turche, potrebbero forse telecomandare iniziative georgiane verso Abcasia ed Ossezia, oppure dare inizio all’iter per l’ingresso della Finlandia nella Nato; ci vorrebbero per questo un paio d’anni, ma Mosca non potrebbe certo stare ad aspettare che passino.

Il delirio guerrafondaio d’oltreatlantico non prevede un allentamento delle tensioni ma punta ad indebolire il nemico facendo leva sulla russofobia dell’ex-periferia sovietica e sui despoti corrotti che vi ha installato a partire dagli anni ‘90. Secondo tale tracotante disegno, se l’economia russa non crolla attraverso le misure sanzionatorie, cederà sotto il peso dei conflitti che dovrà continuamente affrontare per garantire la propria sicurezza.

Intanto a traballare è proprio l’egemonia americana nel venir meno della dittatura planetaria del dollaro, per cui stiamo vivendo una fase in cui nessuna delle parti potrà fare un passo indietro senza soccombere. Il sistema economico occidentale non sopravviverebbe ad esperimenti di coesistenza pacifica in un mondo multipolare ed anzi si trova già nella fase crepuscolare di predazione a danno dei ceti che costituivano la base della propria genesi. Di contro, un cedimento della Russia in un tale frangente avrebbe imprevedibili ripercussioni interne, oltre a ricadere pesantemente sul futuro dei paesi che resistono al giogo dei poteri finanziari.

Una vittoria politica russa in terra ucraina, con la costituzione a Kiev di un governo amico (o quanto meno non nemico) di Mosca, sarebbe da monito per ogni altra pedina dei manovratori atlantisti. Un suo scacco al contrario favorirebbe altri azzardi e nuovi focolai di tensione.

Ma tale vittoria politica dipende al momento dall’esito delle operazioni militari e non c’è situazione di stallo che possa favorirla, nemmeno se essa conduce nel tempo all’esaurimento del potenziale nemico. Il governo di Mosca ha già fatto intendere che vorrebbe chiudere la partita ucraina entro il 9 maggio, giornata della vittoria sovietica sul nazifascismo, aggiungendovi il freschissimo alloro di un pericolo alle porte sventato. C’è da sperare che nel frattempo la linea del fronte non si muova in modo tale da rendere discutibile il successo.