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L’impero fondato sul conflitto di interesse

Anna Lombroso per il Simplicissimus

L’ arrendevole ripiegamento degli “intellettuali” sulla tesi che non esista un’alternativa allo status quo, o via virtuosa alla presa del potere dopo i fallimenti del socialismo reale, che oggi li colloca tra i fan del presidente ucraino che difende da solo come un martire risorgimentale i valori dell’Occidente, si è scelto da tempo come slogan la nota frase di Gramsci “il vecchio muore ma il nuovo non può ancora nascere”, dando per scontato che le radiose visioni del riscatto dallo sfruttamento, della liberazione dalle leggi del profitto e dell’accumulazione avida non si collochino più nei territori imaginari dell’Utopia, ma al massimo in quelli della fantascienza.

In realtà il vecchio non è affatto morto, anche grazie all’ostinazione con la quale pensatori, filosofi e sociologi, salvo qualche rara eccezioni,  si avvitano alle loro rendite di posizione, alle loro convinzioni rinunciatarie che legittimano la consegna all’ideologia neoliberista in mancanza di un blocco sociale che si faccia portatore di principi e valori sepolti insieme alle “ideologie” novecentesche. E la verità è che anche per loro  il  perno intorno al quale gira la loro produzione intellettuale e morale  è sempre lo stesso che caratterizza e ispira l’attrezzatura e l’azione di chi copre un ruolo di potere in ogni settore: il conflitto di interesse.

Accademici a libro paga di soggetti privati, compresi filosofi addetti a dirigere verso più fertili risultati politiche aziendali, ambientalisti mobilitati per sviluppare la green economy, ricercatori la cui libertà e professionalità sono condizionate da finanziamenti opachi, ingegneri con trascorsi giudiziari inquietanti designati in qualità di controllori della trasparenza di opere e appalti, sono l’incarnazione di un sistema consolidato anche grazie a mostri giuridici (l’allegoria è rappresentata dal Consorzio Venezia Nuova nel quale convergono tuttora competenze e poteri incompatibili e  contraddittori, quelli di un controllato adibito a controllarsi, di un ente che inquina ma è delegato a condurre bonifiche, che scava e riempie) che hanno autorizzato corruzione, malaffare e predominio di benefici personali e di lobby.

Non si può dare la colpa solo a Berlusconi se il conflitto d’interesse è una patologia inestirpabile nel corpo sociale italiano, anche oggi che la Storia è espunta dall’agenda politica, sociale e culturale del Paese per il pericolo che rappresenta e non a caso la conoscenza dei processi che danno corso a fenomeni complessi, in modo da ridurli a incidenti imprevedibili della storia da affrontare con provvedimenti muscolari, leggi eccezionali, autorità speciali.

Anche senza risalire all’Unità d’Italia, anche senza esplorare come l’avvento del fascismo e il suo consolidamento si sia basato sul dominio incontrastato di una cerchia che aveva superato il potenziale contrasto tra aspirazioni e aspettative per raggiungere un obiettivo comune, quello dell’egemonia proprietaria, speculativa, finanziaria, da conseguire a tutti i costi e affidato a caste che occupavano tutti i ruoli decisionali, esecutivi e di influenza anche grazie a contro-istituzioni che il regime attuale ha mutuato, si deve riconoscere che il conflitto d’interesse ha smesso di essere tale, di scandalizzare e suscitare riprovazione proprio nel ventennio berlusconiano.

Quando cioè è diventato un tabù, un nervo dolente che era meglio non toccare in vista di sviluppi imprevedibili, tanto che il leader di opposizione pensò bene di cancellarlo dalla campagna elettorale, arrivando, tanto per non sbagliare, a raccomandare ai militanti di non fare neppure il nome del competitor, con l’auspicio di una damnatio che premiasse tanto lodevole bon ton, cifra irrinunciabile della specificità della “sinistra”, ma mentre in non sorprendente coincidenza ci si trastullava con il sogno di avere una banca.

E bisogna anche ammettere che, tanto per non essere così provinciali da sentenziare che anche questo sia un vizio presente solo nella nostra autobiografia e che macchia unicamente la reputazione della nazione, basta guardarsi intorno per vedere che a una figlia di Draghi, corrispondono il rampollo di Biden, il marito di Ursula von der Leyen.

Una cosa però va detta, mai come di questi tempi il conflitto d’interessi è diventato non solo trascurabile, ma addirittura un atout, una virtù che predispone al riconoscimento di qualità professionali e umane e propedeutica al successo, come nel caso di scienziati che hanno potuto testare la loro competenza e il loro prestigio con una partecipazione attiva al vertice di case farmaceutiche, autorità incaricate di procurare prodotti irrinunciabili a tutela della salute collettiva che casualmente beneficano aziende di famigli e intrinsechi grazie alla inevitabile sospensione di delle regole promossa dalla provvidenziale emergenza.

E nessuno ormai ricorda i tempi nei quali la versione moderna degli shogun in forza al governo giapponese, scoperta con le mani nel sacco per via di una oscura coincidenza di poteri e funzioni, faceva harakiri sia pure solo virtuale, o le tempestive dimissioni di ministri tedeschi dei quali si mormorava che avessero intascato un gettone di presenza o la remunerazione per una collaborazione durante il mandato.

Credo che non si sbagli a pensare che il processo accelerato che ha portato la sinistra non antagonista a riconoscersi nel riformismo e nel progressismo neoliberista abbia contribuito a far accettare il primato del compromesso, della mediazione del conflitto grazie a una perenne contrattazione negoziale tra interesse generale rappresentato dal potere pubblico e quello privato, che ben lungi dal dare luogo a una soluzione “a somma zero” con un vincitore e uno sconfitto, una ragione e un torto, si traduce in un sistema di concessioni e rinunce a danno della collettività, del bene comune, costretti da stati intermedi che hanno abiurato al loro incarico a farsi carico delle ragioni del profitto, dello sviluppo, dei benefici di un Progresso interamente consegnato e dipendente dal mercato.

E difatti esiste una letteratura di genere che insiste nel volerci persuadere che il conflitto d’interesse sia un fisiologico e inevitabile effetto collaterale di una disorganizzazione alla quale i decisori tentano di mettere mano con la semplificazione e il ricorso a procedure di controllo che verranno favorite dalla digitalizzazione, per aiutare, è ovvio, il mondo d’impresa in perenne lotta con lacci e laccioli, con una burocrazia farraginosa frutto delle perversioni della cattiva politica, del clientelismo e del nepotismo instaurati per rispondere alle pretese di un popolo indolente e parassitario. Solo la concretizzazione di un ordine sovranazionale e delle sue regole permetterà di superare questa fase, caratterizzata tra l’altro da una produzione di leggi,  così severe e contraddittorie, confuse e criptiche per via degli irrazionali procedimenti imposti dall’iter parlamentare da costringere i soggetti più dinamici a trasgredire e i decisori più avveduti a  ricorrere  a provvedimenti straordinari  che aggirino le moleste procedure della democrazia.

Infatti in questi mesi abbiamo assistito alla istaurazione di vere e proprie istituzioni non parallele, ma addirittura conflittuali con quelle democratiche, soggetti autocratici con competenze e poteri assoluti. E alla consegna delle alte cariche, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato a una cerchia che aspira al dominio illimitato e incondizionato.

Ormai i pochi nostalgici della denuncia del conflitto d’interessi, a suo tempo arruolati a forza nelle falangi del populismo e della sterile antipolitica, sono  retrocessi a terrapiattisti per aver avuto l’ardire di esigere informazioni sulle collusioni scienza e industria in seno agli organismi tecnico-scientifici che hanno dato gli indirizzi della gestione pandemici, a barbari per mettere in dubbio il sapere e le competenze dei Migliori, a pericolosi anarco insurrezionalisti per essere colpevoli di battersi contro uno Stato ridotto a sorvegliante, secondino, esattore.

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