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La cena dei cretini

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ah, se la vita fosse un film, pensate che Cena dei cretini si potrebbe girare sullo sfondo di un non improbabile conflitto nucleare.

Ma andiamo con ordine, dunque abbiamo un sindaco dadaista che una ne pensa, e è anche troppo per lui, e cento ne fa, in perenne competizione con il predecessore producendosi in atti gratuiti e arbitrari di propaganda personale.

Dopo aver coperto di un nero sudario una statua simbolo della città che improvvidamente governa, in segno di solidarietà attiva  con l’Ucraina, organizza una convention ( Cities stand with Ukraine“, e mica volevate che sciacquasse  lo slogan in Arno) degli addetti alle vendite piramidali dei buoni sentimenti col moschetto,  ma senza libri colpevoli di alimentare un libero pensiero incompatibile con la  militanza nella modernità,  da Gualtieri  che per l’occasione si è ricordato di essere un sindaco, a Letta, a Renzi, davanti a ventimila cittadini secondo la questura,  che sfoderano come inno al posto di Bella Ciao, Imagine. Tutti  in attesa del promesso coup de theatre, che si verifica puntualmente quando il presidente del paese martire, che si sta immolando per difendere la civiltà occidentale anche in nome e per conto di noi colpevolmente indifferenti, si materializza sullo schermo in mimetica e brandendo uno dei due strumenti “resistenti” che possiede, lo smartphone, che non abbandona mai per essere sempre su twitter, insieme al suo staff della comunicazione bellica.

È lui il protagonista del film, arrivato al culmine della sua carriera di attore punteggiata da performance leggendarie, come lo sketch nel quale, insieme a un comprimario che potrebbe aver ottenuto così un incarico nel suo governo composto da esponenti dello star system naziucraino, suona il pianoforte con il pistolino, l’altro strumento irrinunciabile della sua advertising celodurista. O  come il ruolo di uomo della strada che sale al vertice del potere  interpretato con tanta credibilità da tradursi in realtà.

È diventato il numero 1 degli influencer secondo la stampa esultante nel descriverlo come un Davide “in  maglietta verde militare, barba lunga, occhi febbrili, tweet in cui chiede aiuto e prende in giro chi non lo aiuta, video autoprodotti sullo sfondo di colonne di fumo, 15 milioni e mezzo di follower su Instagram in crescita ogni giorno” cito dal Corriere, contro un Golia “autocrate settantenne gonfio e tronfio, chiuso in un Palazzo circondato da mura e da tombe”, cito sempre dal Corriere,  “che parla per un’ora in giacca e cravatta minacciando la guerra nucleare, che non vede nessuno se non a distanza, che non conosce Instagram, non ama neppure le mail, preferisce il fax”, Putin insomma, anche se avevate creduto si parlasse di Draghi.

Ormai una stampa che ha dismesso ogni velleità di informare insieme a opinionisti che hanno dismesso ogni velleità di pensare, si esercita sullo scontro tra queste due personalità e relative fenomenologie, a dispetto del senso del ridicolo, tanto da scomodare Eco per disegnare l’identikit spericolato di un Putin intollerante e machista per problemi di impotenza, che trasferisce al fronte le sue frustrazioni e la sua “tracotanza priapesca”, contro “il primo presidente-guerriero”,  si quello talmente iperdotato da tamburellare il fallo sulla tastiera,  “che ha osato mettersi in scena come persona braccata, senza per questo essere meno leader”.

Eh si perché nel film il ruolo di utili idioti tra i cretini superflui, è ricoperto dai media.

E c’è il servizio pubblico che dopo aver esibito inquadrature dei videogame, immagini di repertorio tratte dagli effetti collaterali inevitabili delle guerre umanitarie dei “nostri”, fermo immagini di commossi inviati con l’elmetto sulla porta dell’hotel,  filmati cortesemente  concessi dalla task force della comunicazione del leader martire, ha pensato bene di ritirare i giornalisti delle redazioni in Russia, che avrebbero potuto, ohibò, dover rinunciare a quel “diritto” di informare che pare volessero esercitare per la prima volta e soltanto là.

E ci sono le tv che con improntitudine fanno l’agiografia dei valorosi partigiani del Battaglione Azov, intervistandoli in veste di combattenti cui dovremmo indirizzare i doverosi lanci di armi come in Val d’Ossola o a sul Montello, e c’è la Stampa che cancella dall’archivio un articolo nel quale denuncia l’occupazione di stato e esercito ucraino  dei miliziani dichiaratamente nazisti.

L’impegno esplicitamente interventista dell’informazione emula del Secolo d’Italia prima della campagna di Russia, si avvale ovviamente del contributo dei commentatori in divisa e pennacchi, salvo i pochi che si sottraggono alla fascinazione delle armi, alcuni generali cioè che hanno rappresentato rare voci di buonsenso guardate con sospetto. E che richiamano il pubblico al dovere di sacrificarsi, abbassando il termostato, per i resistenti paragonati arditamente ai nostri partigiani, nonostante non si abbia avuto mai notizia di opposizione nei confronti del governo che da anni discrimina, criminalizza e sottopone  persecuzione una minoranza dissidente, si parlo degli ucraini anche se avete pensato mi riferissi all’Italia.

Non si può certo negar loro la funzione di rappresentare il pensoso intellettuale che non può mai mancare nella funzione di guida spirituale nell’edificante cammino della virtù, a tutela dei principi e dei valori di giustizia, libertà e uguaglianza che conosce bene per aver contribuito con fertile determinazione a cancellare da una Costituzione retrocessa a prodotto letterario affidato a altri guitti. E  che oggi pare debbano essere promossi – altrove e in casa – con l’unica credibile forma di pace permessa dal sistema dominate, quella garantita dalle armi, la cui voce deve realisticamente sovrastare ogni protesta, ogni bisogno, ogni aspettativa per rispondere a mire che potrebbero compromettere la superiorità occidentale. Perché sembra sia davvero venuta l’ora di dire basta alle patetiche rivendicazioni di equidistanza, alle ubbie delle anime belle, per prendere posizione contro la minaccia che viene da Oriente e che  ha l’ardire di contrastare l’egemonia della civiltà superiore, per la quale si batte come un eroe solitario dell’epica, non a caso carolingia, il suonatore col piffero.

Sullo sfondo dobbiamo collocare un’altra figurina, quella del sicario incaricato dalla cupola che occupa una istituzione artificiale e autopromossa a ente sovrano di liquidare direttamente o indirettamente paesi immeritevoli di autodeterminazione.

Il ruolo  è affidato a un interprete mediocre, grigio e senza alcun carisma come si addice all’incarnazione della banalità del male, ciononostante posseduto dai demoni del narcisismo, che lo portano a gesti e comportamenti inconsulti e dannosi perfino per sé stesso oltre che per il capitale umano che è delegato a sfruttare fino all’esaurimento.

E’ probabile che la condizione di soggezione a un vecchietto affetto da demenza, a una cerchia di mercenari, contractor e malaffaristi che dall’altra parte dell’Oceano lo trattano da volonteroso attendente, quella di subalternità a datori di lavoro sprezzanti e ingrati abbiano alimentato in lui un istinto a strafare per rendersi indispensabile.

Così in mancanza di meglio si è adoperato per conquistarsi la leadership nelle mansioni più brutali e più miserabili, quelle che conoscono bene le vittime del racket: intimorire, ricattare, tirare i pollici del cattivo pagatore, bruciargli il bar, minacciare i ragazzini o persuaderli a drogarsi coi vaccini e a spacciare, sistemare la manovalanza nei posti chiave, infiltrare aziende pubbliche e private contagiandole con incompetenza e incapacità in modo da rivenderle a basso prezzo.

Ed è pronto a tutto perché non gli taglino la parte e le inquadrature, sopporta le umiliazioni e gli schiaffoni di chi non lo ammette al tavolo dei grandi e perciò si rifà sugli altri, forte con gli umili quando è servo coi forti.

E’ proprio un film corale questa Cena dei cretini. Lo è talmente che ci sono milioni di individui  che per il cestino del pranzo, che sarà sempre più scarno, pagano per fare le comparse.

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