Anna Lombroso per il Simplicissimus

Potrebbe essere l’oggetto di un racconto di Philip Roth la vicenda personale e imprenditoriale di Zuckerberg scatenato, che si propone  di riconquistare una reputazione e una statura morale e di riaffermare  una funzione pedagogica per il suo social.

Immaginate il suo stupore quando per via dell’egemonia del pensiero politicamente corretto e della sua etica pubblica, gli venivano contestate quelle qualità irrinunciabili necessarie ad affermare talento e inventiva, spregiudicatezza, arrivismo, cinismo e avidità.

Ma come? si sarà chiesto, ma non consistevano in questo le doti dei titani del nuovo sogno americano? Non erano quelle che distinguevano i re della Silicon Valley, i “creatori di futuro” che giustamente ritengono che il loro Golem, il Big Tech, debba essere lasciato libero di influenzare,  con i suoi paradigmi e le sue  leggi di mercato diventate “naturali”, i governi, la politica, la società civile, il diritto?

Ma non si sapeva – e tutti ne erano a conoscenza,  ma ora fingono che si tratti di una distopica rivelazione – quello che   il Washington Post e  il Wall Street Journal, alla stregua di un Bechis  qualunque o di un Report, hanno deciso di denunciare, e cioè che i  social possono nuocere agli adolescenti e che i post più  aggressivi e estremi sono redditizi e incoraggianti nella loro funzione di fabbriche di clic e quindi di introiti pubblicitari? Ma non vale lo stesso per i media tradizionali, quelli che campano sempre più micragnosamente di scoop, sensazionalismo, tv del dolore, minacce e paure che fanno notizia e dunque profitto? Ma non eravate tutti d’accordo che questa pornografia sociale era un motore irrinunciabile per incrementare i consumi a cominciare da quelli futili, per consolidare il potere di condizionamento di influencer attivi nei settori commerciali ma anche nell’arena politica?

Ma chi non aveva immaginato che il sistema nato nel 2017 delle  cinque emoticon: “mi piace”: “love”, “haha”, “wow”, “sigh” e “grr” a cui si è aggiunto l’abbraccio  fosse l’accorgimento inventato per mantenere gli utenti attivi sul social, quando si sa che l’algoritmo di ranking riconosce le reazioni emoji secondo una gerarchia nella quale le reazioni di rabbia, più violente e negative valgono da cinque a 30 volte di più dello stolido “mi piace” sotto Alda Merini, le citazioni del Che e i gattini e i post in cima alla graduatoria degli acchiappaclic virali sono quelli più perentori, feroci e soprattutto divisivi, che per anni Facebook ha incoraggiato grazie a una censura a posteriori apparentemente insensata più che arbitraria?

Come sempre succede quando un problema è frutto di danni prodotti dal mercato, il mercato si appropria delle possibili soluzioni in modo da gestirlo in modo il più possibile indolore. Così proprio mentre si perora l’obbligatorietà del vaccino per i bambini, gli stessi big della rete propongono di risparmiarli dai veleni di Instagram, impedendo l’accesso ai minorenni e Zuckerberg come atto preliminare fa proprio come Astra Zeneca, cambia simbolicamente il nome del prodotto, che diventa Meta Platform, facendo intendere che da là prenda avvio un processo redentivo che renderà più “umana” la condizione del cittadino digitale, sia pure collocato irreversibilmente in un universo che si configurano il prodotto combinato di  operazioni di “sensing, networking, mining, sorting e rendering” che evocano, se non, addirittura, si traducono, in una realtà parallela e un’altra dimensione sensoriale e percettiva.

Ci sono filosofi, anche da noi, che invece di esaltare uno stato di eccezione e i suoi strumenti che ci stanno conducendo verso un totale sconvolgimento della percezione della realtà, della verità, dei valori a cominciare da quello della conoscenza, preferendo rappresentazioni e narrazioni imposte come doveroso prodotto di consumo, si preoccupano, come ad esempio Cosimo Accoto e altri, degli effetti dell’automazione e dell’informatizzazione, delle applicazioni della robotica e dell’intelligenza artificiale, del deep learning, blockchain e smart contract, della cybersicurezzavenduti come opportunità ma che sono gravidi di incontrastabili rischi per le categorie concettuali, il lavoro e le attività professionali, per le relazioni umane, per le pratiche cognitive e disciplinari.

Con il pericolo che la riduzione in schiavitù non venga percepita o sia addomesticata dalla esplorazione di una “libertà” parallela di circolazione in una realtà virtuale, con il teleporting e i viaggi virtuali anticipati dalla regressiva pratica delle visite virtuali ai musei e delle gite scolastiche per ragazzini seduti sui banchi che simulano i sedili del pullman e tanto di cestino della merenda,  con le lezioni universitarie, anche quelle in esclusiva per i possessori di green pass, di fisica e astrofisica con le esplorazioni fittizie da illusionisti del luna park siderale alla velocità della luce tra le galassie.

Non è fantascienza, il nostro mondo sta da tempo vivendo distopie che sembravano inimmaginabili, il crearsi di un impero trasversale di sfruttamento e cancellazione dei diritti e delle conquiste del progresso esercitati in nome del progresso, l’enfasi data a rischi creati dall’uomo per ridurlo grazie alla paura a condizioni ferine e bestiali, e Zuckerberg sa bene, come tutti i padroni, come trasformare una crisi in occasione fruttuosa.

Aveva cominciato con gli occhiali prodromi del microchip nella retina, con la ricerca dell’algoritmo dominante e sovrano, in coincidenza con il progetto di medicalizzazione totale dell’individuo del compagno di merende ideali Gates, adesso propone lo spazio obbligato per il corpo digitalizzato dei suoi clienti che sono al tempo stesso produttori di dati, informazioni, da regalare a lui e ai giganti del commercio online.

Lo sapevo che prima o poi avremmo dovuto contare sull’intelligenza artificiale da preferirsi all’imbecillità naturale, adesso resta da sperare che chi ancora pensa che si possa contrastare questo dominio oligarchico si trasformi in hacker capaci di inserire nel nostro sistema la luce del dubbio, della ragione e della libertà.