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Il lusso politicamente corretto

Da qualche tempo in America le macchine di lusso, Audi, Lexus, Mercedes, Audi, Cadillac e via andare hanno cambiato la loro tradizionale pubblicità: finora negli spot i fortunati possessori di questi veicoli che al minimo costano 80 mila dollari erano done e uomini belli, bianchi e benestanti, ovvero i clienti che con più probabilità si potevano permettere una spesa del genere e che erano spinti all’acquisto proprio per palesare il loro status in una sorta di circolo vizioso. Ma da qualche tempo  in quasi tutti i casi i testimonial delle auto di lusso sono donne nere, ovvero il settore della società americana a più basso reddito che rende quanto mai improbabile un acquisto di questo genere da parte di questa area di mercato. E la stessa cosa sta accadendo per le carte di credito più esclusive che adesso vengono estratte dai portafogli di giovani neri elegantemente vestiti. Cosa è successo? Perché una serie di grandi aziende vorrebbero spendere in pubblicità scegliendo il target più sbagliato possibile e dal quale e ricaverebbero pochissime vendite? Forse i settori marketing di queste aziende sono state catturate da neolaureati in studi di genere che vedono gli spot televisivi come un modo per dare “voce” a comunità storicamente emarginate magari acconciandole con tinture biondo platino visto che comunque per loro che sono total white il biondo è ancora inconsciamente un “valore” aggiunto? 

In realtà tutto questo suggerisce un sistema di identificazione indiretto che corre dentro un gioco di specchi di ipocrisie: da dal momento che i ricchi, famosi e accreditati – generalmente bianchissimi – sembrano tutti d’accordo con la teoria critica della razza, comprando l’auto pubblicizzata dalla nera biondo platino, i clienti di sempre non si sentono affatto sminuiti come potrebbe sembrare, ma acquistano credibilità non soltanto dal lusso e dal costo dell’auto che decidono di comprare  ma anche dal fatto che così dimostrano di appartenere in un certo senso a una elite di gente privilegiata, di essere insomma  sulla stessa linea d’onda dei personaggi del jet set. Dal momento che questi ultimi si limitano a propria volta  a ripetere e ad avallare il politicamente corretto del momento perché ciò apre loro molte porte che altrimenti rimarrebbero chiuse, si crea una sorta di corto circuito dell’informazione:  qualcosa nella quale molti – compresi parecchi neri – non credono in molti diventa così il perno del discorso pubblico. Tutti finiscono per dire cose che non pensano affatto.

Tutto ciò naturalmente ha poco a che fare con la condizione dei neri e men che meno con quella delle donne nere il cui  redito è persino diminuito più della media ultimi due anni: non le vedremo alla guida di berline di lusso nella vita reale. Ma questo è il regime cognitivo che si instaura nel mercato quando le persone stesse sono merce e possono essere facilmente spinte nella direzione che si vuole: se le idee hanno principalmente un valore economico – e rappresentativo del sé senza tenere in alcun conto la loro bontà o coerenza, sarà facile far prevalere tesi che idee che promettono un vantaggio contro quelle che possono portare a disastrose perdite. E’ così anche con la pandemia: tutte le assurdità che sentiamo non vengono vagliate perché ripetute a pappagallo da persone che si presentano come importanti e in vista e dunque degne di fede: esse per prime sanno che sono cazzate, ma se lo dicessero apertamente l’industria dello spettacolo e della cultura le metterebbe all’indice. Ed è così che adesso cominciano anche da noi le pubblicità di auto che promettono di ridarci  la libertà che ci spetta, con un chiaro, anche se non esplicito riferimento al vaccinato – modello. Forse hanno ascoltato quegli idioti matricolari che dicono che il green passa è come la patente.

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