Anna Lombroso per il Simplicissimus

Il giudice del lavoro del Tribunale di Napoli, Maria Rosaria Lombardi,  ha rigettato il ricorso per la condotta della multinazionale Whirlpool ai danni  dei lavoratori dello stabilimento di Napoli, presentata dalla Fiom, Fim e Uilm.

La sentenza di nove pagine rigetta le accuse  mosse dalle  tre organizzazioni che avevano denunciato le  evidenti violazioni degli accordi sottoscritti nel 2015 e nel 2018, quando Governo, azienda e sindacati  avevano accettato una piattaforma comune che avrebbe dovuto garantire produzione e occupazione.

Il  giudice ha dato per buone le “ragioni di forza maggiore” addotte per giustificare i licenziamenti: la  flessione dei volumi di mercato  e l’irragionevole rifiuto opposto dalle rappresentanze dei lavoratori alla decisione di Whirpool di cedere  quel ramo d’azienda. E come se non bastasse ha contestato l’accusa di condotta antisindacale, portando a testimonianza della volontà di negoziare dimostrata dall’impresa prestandosi a numerosi incontri con la controparte.

Non c’è da sperare che questa ultima lezione serva ai sindacati, gli stessi che, in nome della trasformazione dell’azione contrattuale in collaborazionismo, (vale ricordare la proposta di una commissione del Cnel della quale faceva autorevolmente parte Luciano Lama beatificato dalla ricorrenza del centenario della nascita, per limitare l’applicazione dell’articolo 18),  in un crescendo ha abiurato il suo mandato fino ad accettare dal 2000 in poi una cinquantina di disposizioni intese a favorire la mobilità e precarietà, la cancellazione dell’articolo 18, la Legge Fornero, il Jobs Act.

E che hanno ingoiato in questi ultimi mesi lo sblocco dei licenziamenti in cambio di vaghe promesse di riforma degli ammortizzatori sociali, la controriforma previdenziale con il rispristino della Legge Fornero, il Green Pass nei luoghi di lavoro a coronamento della sottoscrizione del patto unilaterale, che, in coincidenza del lockdown, concedeva immunità alle imprese dei settori essenziali in tema di sicurezza sanitaria, circoscritta quindi al Covid19 e non certo ai requisiti di tutela dei dipendenti .

E cosa possiamo aspettarci se hanno dimostrato una volontà di rinuncia, che rasenterebbe l’autolesionismo  se invece non si fossero impegnati per la salvaguardia delle loro rendite corporative, valorizzando il brand dell’attività dei patronati, quelle di agenti commerciali di fondi e assicurazioni private nell’ambito del cosiddetto Welfare aziendale.  E cosa possiamo aspettarci se  hanno indirizzato il loro residuo potere contrattuale, negoziato sottobanco con Confindustria al loro fianco in piazza il Primo Maggio, solo nella difesa di ben identificati pubblici, categorie di lavoratori dipendenti contrattualizzati, bacini automaticamente tesserabili, abbandonando milioni di lavoratori atipici che hanno cercato protezione presso cobas e organizzazioni autonome.

E mi riferisco ai sottoinquadrati, a quelli dei contratti atipici con salari orari di tre, quattro, sei euro lorde l’ora, a quelli costretti a un tirocinio da 400 euro al mese, a un part time involontario, a quelli che si arrabattano in una giungla dove vige una sola legge, quella del padrone, con stipendi bassi e precari.

È da imputare a loro anche questo nuovo stile impresso alla “giustizia del lavoro” che sta avallando centinaia di licenziamenti o demansionamenti, tanto che aumenta il numero di lavoratori costretti a ricorrere in Cassazione dopo le sentenze di primo e secondo grado, che in aggiunta costringe chi perde a far fronte alle spese processuali in modo da scoraggiare esposti e procedimenti.

Le dimissioni non solo virtuali dalla funzione di tutela degli sfruttati e di garanzia dei loro diritti, sancita da quella Carta cui si è richiamata anche il giudice di Napoli per proclamare che il comportamento della Whirpool rientra nella “estrinsecazione del diritto di libertà di iniziativa economica previsto in Costituzione” sia pure con i limiti “di carattere sociale” che non possono essere “vincolanti”, sono il frutto velenoso del riconoscimento dei principi di una ideologia dominante, secondo la quale le prerogative conquistate da secoli di lotta non sono inviolabili, che decreta anche  a norma di legge  che il posto si “merita” e si mantiene con il rispetto di paradigmi che poco hanno a che fare con la competenza, la preparazione e l’efficienza, bensì con l’accettazione di un sistema intimidatorio di ricatti e comandi, regole intese a consolidare la fidelizzazione e l’obbedienza.

Tanto è vero che in nessuna agenda di buoni propositi rientra più il salario minimo garantito, che il reddito di cittadinanza viene considerato una sterile battaglia di retroguardia sulla quale è infruttuoso mobilitarsi, che tra le infami menzogne propalate continua ad avere diritto di cittadinanza sulle colonne dei giornaloni ma anche presso alcuni dirigenti compresi della necessità di favorire il turnover generazionale, la convinzione che per promuovere nuova occupazione occorre licenziare.

E quando il mammasantissima della cupola padronale li convoca per renderli partecipi tardivi dei suoi propositi per valorizzare il capitale umano, non capita mai di sentir ricordare che oggi in Italia si guadagna meno di trent’anni fa a parità di professione, di livello di istruzione e di carriera e che l’abbassamento dei salari non ha promosso come era stato detto una maggiore competitività delle imprese, al contrario, ma ha invece reso i dipendenti più poveri, più ricattabili e inoltre restringendo le possibilità di accesso ai consumi e ai servizi dello stato sociale.

Così partiti o quel che ne resta, sindacati, tribunali si prestano a tutti gli espedienti utili alla selezione del personale, facendo precipitare sempre più giù nella marginalità sottoproletaria larghi segmenti di popolazione, cinquantenni, donne, giovani, inidonei a partecipare della grande ristrutturazione che potrà integrare solo professioni e mansioni iperspecialistiche  (basta pensare all’esaltazione delle lauree Stem per combattere il cosiddetto skill mismatch) mentre gli altri, agnelli sacrificali in nome dello sviluppo, meno produttivi e inadeguati a raccogliere la sfida dovranno affogare nella palude dei lavori servili manuali occasionali alienanti.

E dire che a cominciare dal padre dello Statuto dei lavoratori, Giugni, tanti giuristi si preoccuparono del rischio non remoto che il “diritto del lavoro”  finisse per fornire un quadro di riferimento utile a regolare unicamente le tutele e le garanzie dei lavoratori attivi, perlopiù subordinati e  contrattualizzati. In questi anni abbiamo visto le falle aperte di un sistema di salvaguardia che non ha voluto affrontare lo stato di inferiorità e precarietà di atipici dei quali non si riconosce l’oggettiva condizione di subordinazione che li protegge se non dallo sfruttamento, dalle pratiche ricattatorie  del cottimo e del caporalato, quello, ad esempio, delle piattaforme.

Ma chi ha pensato di godere ancora della protezione offerta da patti e contratti sia pure sempre meno “sicuri” oggi ha la conferma che nessuno è esente, che ci può sempre essere un giudice a Napoli o a Lodi, a Palermo o a Trieste, che si presta a fare da solerte guardiano degli interessi del padrone.