Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ormai l’odio di classe non procede più dal basso verso l’alto, come sarebbe ragionevole, macché, ci si odia tra status, analoghi stipendi, dichiarazioni dei redditi, mutui e cartelle esattoriali affini e dall’alto verso il basso.

Infatti per mesi  insegnanti hanno sottoposto a linciaggio morale ristoratori, impiegati hanno ridicolizzato la sofferenza di esercenti, cassintegrati hanno messo in dubbio gli svantaggi dei magazzinieri di Amazon, partite Iva se la sono presa con i percettori di reddito, rivendicando tutti più elevati standard di legittimità della condizione di vittime di misure emergenziali delle quali incolpano categorie e corporazioni affini pur di non doversi far carico dell’opposizione dichiarata a autorità e decisori.

E poi, come è uso ormai da anni, da quando la lotta di classe è diventata un terreno di scontro egemonizzato da chi ha verso chi ha sempre meno, in questi giorni ha preso vigore l’anatema rivolto a lavoratori che pur godendo del privilegi di avere un’occupazione e una paga non si dimostrano consapevoli del loro privilegio, immeritato da quando forme ancora rudimentali di automazione hanno reso meno gravoso la loro funzione, e che dimostrano una neghittosità egoistica che va delegittimata.

Una loro colpa sarebbe tra l’altro quella di aver puntato i riflettori su un segmento di quegli essenziali che da quasi due anni sono esposti alla pestilenza in luoghi di lavoro, mezzi pubblici, condannati all’invisibilità doveroso per garantire servizi e merci a un ceto di serie A meritevole di tutele superiori.

Avendo introiettato i principi guida del pensiero progressista incarnato dai columnist di Sole24 ore e Corriere, dal senatore di Italia Viva che proclama la virtù pedagogica della fatica, dei consigliori del mammasantissima,  Fornero in testa di cui è nota l’indole alla vessazione di bambocci choosy e di ultrasessantenni assatanati di benefici previdenziali, abbiamo letto la condanna degli irresponsabili scioperi e blocchi illegali dei portuali, antropologicamente  inaffidabili perché geneticamente “di destra”, emessa dal tribunale di sindacalisti infedeli, di insegnanti che hanno vissuto la soggezione e l’umiliazione come incontrastabili componenti della loro professione, giornalisti comprati e venduti da editori impuri e inquinatori, orgogliosi di aver ceduto a immondi ricatti che hanno convertito il “tengo famiglia” onorevole e legittimo in “lo faccio per gli altri” menzognero e ipocrita.

La verità è che le disuguaglianze che di questi tempi sono state incrementate, hanno poi la stessa matrice e gli stessi interpreti, soggetti che possono vantare una superiorità grazie alla condanna all’inferiorità, diventata legge naturale, di altri, quelli ad esempio che svolgono un lavoro manuale inteso più servile dello stare in cattedra a tramandare messaggi di ingiustizia e autoritarismo, davanti a computer a applicare strumenti di sorveglianza, promuovere consumi tossici, espropriare i cittadini di dati e informazioni per trasformarli in merce, “trattare” creativamente i risparmi dei correntisti per “agevolare” una clientela selezionata.

A favorire questa discriminazione aggiuntiva  ci pensa anche una letteratura cui attingono uomini di governo e pensatori al loro servizio concordi nel portare a compimento la selezione che distingua chi è adatto a affermarsi e emergere e chi invece è  predisposto biologicamente o antropologicamente a essere collocato ai margini nel corso della soluzione finale  per dimostrata inabilità e adattarsi, a ristrutturarsi, a “raccogliere la sfida del futuro”.

Qualche giorno fa l’ineffabile Corriere della sera ci deliziava pubblicando le risultanze di uno studio condotto da tale Arthur C. Brooks titolare ad Harvard di una cattedra di “leadership pubblica”, che ci ha messo decenni di studi e ricerche  per trovare una risposta all’interrogativo:  “Cosa serve per essere felici al lavoro” dando infine una risposta: le persone più soddisfatte del loro lavoro sono quelle “che trovano una corrispondenza fondamentale tra i valori del loro datore di lavoro e i loro”, secondo una edizione aggiornata dello stiamo tutti sulla stessa barca insomma, che maltratta Weber per dimostrare che fidelizzazione, conformismo e sottomissione assumono un valore altamente etico, filosofico e spirituale, che deve caratterizzare alcune professioni, infermiere, insegnanti, addetti al controllo qualità o sviluppatori di rete. Perché la seconda fonte intrinseca di soddisfazione sul lavoro è il servizio agli altri: «La sensazione, secondo Brooks,  che il tuo lavoro stia rendendo il mondo un posto migliore».

Certo si capisce che questi principi valgano per una scrematura sociale, culturale e professionale, cascami di fenomeni evanescenti e effimeri insieme a uno zoccolo duro che crede di godere ancora della protezione inestinguibile dell’oligarchia e  che si distinguono dalla preoccupante “neoplebe” con i suoi potenziali negativi tanto che i suoi fermenti si prestano a essere massa di manovra del populismo, un rischio, ma è ovvio, molto più  rilevante di quello rappresentato dallo stare al servizio dei croupier del casinò finanziario, dei magnati delle multinazionali farmaceutiche, dei tycoon delle piattaforme.

C’è da dubitare che i rider di Glovo, gli scaffalisti di Amazon costretti alla pipì in bottiglia, abbiano maturato la festosa e appagante consapevolezza di rendere il mondo migliore recando tempestivamente la pizza con la acciughe o alla rivelazione che i loro valori coincidono con quelli di Bezos, a meno che non siano talmente fuorviati dalla promessa a nome di Jobs, Gates, Zuckerberg di poter diventare imprenditori di se stessi pianificandosi tempi e percorsi delle consegne.

Ormai a parlare di futuro sono autorizzati solo quelli che possono comprarselo e poi conservarselo. Se non appartenere a quella cerchia minoritaria non vale nemmeno investire in master per i vostri figli, a vedere cosa sta succedendo in California dove per sopperire alla crisi della logistica molti licei hanno deciso di inserire nel programma di studi un corso di guida di autocarri per gli studenti dell’ultimo anno, visto che il 25% dell’attuale forza lavoro del settore si è avvicinato all’età pensionabile  e occorre convincere i giovani alle virtù di questo sbocco professionale, finora disertato perché usurante e mal pagato.

L’incubo americano è stato segnato da inizio anno da quasi duecento scioperi che hanno bloccato interi comparti, dalla Kellog, agli addetti alle produzioni cinematografiche di Hollywood, dai minatori della Warrior Met Coal in Alabama, agli  operatori sanitari della Kaiser Permanente. E il malcontento serpeggia anche nelle catene della grande distribuzione, come Amazon, Walmart, Walgreen, Costco e altre, che  hanno accumulato profitti stratosferici nel 2020 e 2021 e che solo dopo agitazioni e scioperi sono state costrette a alzare le retribuzioni, arrivando a 15 dollari.

Oggi lavorare stanca, umilia. E corrompe perché sono venute meno le premesse per dare forza a richieste unitarie e solidali, esaltando come qualità e valori l’ambizione, l’arrivismo e la competitività selvaggia.

Tanto che non solo negli Stati Uniti, dove un’analisi di Microsoft ha scoperto che il 40% della forza lavoro sta prendendo in considerazione l’idea di dimettersi, ma anche in Germania e Regno Unito molti  hanno deciso di  abbandonare lavori essenziali ma ciononostante malretribuiti, non riconosciuti e alienanti. Questo fenomeno, lo chiamano Big Resignation, o Big Quit, è una tendenza consistente in tutto l’Occidente e aumentata con la pandemia  ma che non si riscontra in Italia.

Il Sole 24 Ore  gioisce e il Corriere della Sera se ne compiace come fosse uan dimostrazione dell’appagamento e della soddisfazione degli “occupati” italiani e non come la riprova che chi ha come unico diritto la fatica non ha scelte, che ormai esiste una assuefazione alla mortificazione a alla frustrazione di aspettative, talenti e vocazioni, che c’è una totale sfiducia in chi promette ammortizzatori sociali, ormai retrocessi a processi formativi della servitù.

Mancava solo il linciaggio di chi vive ancora in una tana che confida sia protetta e calda, e che si ostina a credersi in salvo e autorizzato a accanirsi contro chi ha l’ardire di stare al freddo anche in suo nome. (2. Fine)