Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ormai retrocessi a figurine stilizzate di una vignetta di Longanesi sotto la gloriosa bandiera “tengo famiglia”, i rappresentanti parlanti della Maggioranza hanno dedicato questi giorni a una severa disamina dei “reati” concreti e morali commessi dai portuali di Trieste.

Ma come? Organizzano un blocco senza autorizzazione, ma non sanno che gli scioperi devono uniformarsi alle regole dei flash mob, delle performance artistiche con tanto di plateatico, delle passerelle di intimo sulla scalinata di piazze storiche?

Ma come? Paralizzano un servizio pubblico e mettono a rischio la redditività di una città e un Paese per i loro capricci di ipocondriaci che temono la punturina?

Ma come? Macchiano con le loro bizze da indolenti profittatori la reputazione di un Paese che sta tornando a una fertile normalità grazie a un demiurgo infaticabile che ha la fiducia dell’intero Occidente?

E vorrebbero la solidarietà dei ferventi antifascisti che hanno manifestato la loro ferma condanna dei teppisti rei di far sussultare le camionette  mettendo a repentaglio la stabilità della democrazia e, quel che è peggio, reclamano la colpevolizzazione delle forze dell’ordine che hanno dimostrato il loro senso civico in forma di prudente cautela con testerasate abituali frequentatrici dei commissariati e necessario pugno di ferro con chi mina la fiducia e ostacola il rilancio?

A dare manforte ai borghesi stanchi, ai carciofini sott’odio, più restii a fare i conti con il presente che col passato, ci si sono messi i sindacati “ufficiali” che hanno richiamato all’ordine gli incauti manifestanti con la stessa foga dimostrata a disperdere le manifestazioni e a dichiarare illegittimi gli scioperi dei lavoratori scesi in piazza all’inizio di marzo 2020, per pretendere la sicurezza in fabbrica contro il delinearsi di un patto osceno sottoscritto da governo e padronato allo scopo di garantire  immunità ai datori di  lavoro in caso di contagio delle maestranze, con il sottinteso auspicio di diffondere la passi a tutti i rischi sanitari.

Anche quella volta i sindacati fecero da testimonial entusiasti dell’alleanza e difatti per i mesi successivi hanno contribuito alla divisione della popolazione tra essenziali costretti secondo gli imperativi confindustriali, a sfidare la peste in posti insalubri, su mezzi stipati di possibili untori, e cittadini di serie A meritevoli di salvezza sanitaria tra le mura di casa, ma non di quella economica, minacciati da necessarie riduzioni di personale, di remunerazioni falcidiate dalle regole dello smartworking, altri sul lastrico repentinamente, ma immeritevoli di solidarietà in veste di esercenti, commercianti insieme alle commesse, albergatori insieme ai dipendenti, artigiani insieme ai lavoranti.

E così proprio da quella fonte ufficiale, la stessa che si è sentita legittimata a definire fascista la lotta dei lavoratori, è arrivato il sostegno morale a una tesi che si è affermata con prepotenza in questi anni, segnati dalla cancellazione delle conquiste e dei diritti del lavoro.

E cioè che il posto, il salario, di fronte a tanta disoccupazione, siano un privilegio che va conservato con la rinuncia, la fatica, il sudore, tanto che la colpa dei portuali consisterebbe soprattutto nel fatto che l’automazione li risparmia dallo sforzo, dal facchinaggio che aveva caratterizzato l’impegno dei loro padri, e che dunque già questo dovrebbe tradursi in gratitudine, in sacrificio redentivo, in obbedienza.

Difatti dopo l’irrinunciabile incipit: vaccinatevi e non rompete i coglioni!, ogni stato sui social proseguiva con un elogio dei responsabili crumiri e con la richiesta pressante di licenziamento seguito dall’assunzione di disoccupati pronti a  prendere il posto degli ignavi irriconoscenti.

Non è bastato il Jobs Act, non sono bastate una cinquantina di riforme e misure adottate negli ultimi vent’anni per consolidare la precarietà e la mobilità, pare ci fosse bisogno di una rivoluzione culturale che applicasse i principi della meritocrazia per sviluppare qualche disuguaglianza in più, la differenza tra chi il posto ancorché incerto, se lo è guadagnato e è capace di conservarselo  in cambio della rinuncia a sicurezze, remunerazioni dignitose, prospettive di carriera concesse solo a una scrematura di depositari di valori e qualità solitamente ereditati per via dinastica, acquisiti grazie a investimenti ingenti, o maturati in virtù di una serie di ingredienti che abbiamo visto elencati tra i fattori promozionali del marketing scolastico- formativo nel famoso curriculum dello studente, volto alla selezione della classe dirigente di domani, viaggi, conoscenza di lingue straniere, performance sportive in circoli esclusivi e così via.

Mentre agli altri  spettano la fatica, la soggezione al sistema di ricatti e intimidazioni, le rinunce al riconoscimento dei propri talenti e capacità, anche grazie a una letteratura cui attingono uomini di governo e pensatori al loro servizio che stanno agendo concordi per portare a compimento la selezione per distinguere chi è adatto a affermarsi e emergere e chi invece è condannato alla soluzione finale che metterà ai margini soggetti che non sono stati in grado si aggiornarsi, di raccogliere le sfide dello sviluppo e di introiettare l’ideologia e l’etica dominante.

È probabile che abbiano ragione i cospirazionisti che datano il green pass molto prima dell’epidemia, sotto forma di una qualche auspicata forma di certificazione di conformismo, soggezione ai comandi dell’oligarchia, consegna di quella che un tempo era un’élite culturale ai demoni del neoliberismo che hanno consumato le sue capacità cognitive e intellettive.

A questa cerchia che rivendica una superiorità sociale e morale dobbiamo anche queste paradossali acrobazie interpretative del Lavoro, a cominciare dalla illusoria convinzione che robotizzazione e automazione metteranno fine alla fatica dell’uomo sostituito interamente dalla macchine, costruite da altre macchine che scaveranno miniere, produrranno metalli e leghe, trasporteranno sulle spalle pesi, guideranno camion, erigeranno piramidi mentre noi potremo stare sereni a guardare le nuvole sotto un susino e a goderci le delizie della vita secondo Keynes.

Gettati alle ortiche Marx e pure Sohn Rethel, hanno aggiornato le tradizionali divisioni tra lavoro manuale e lavoro intellettuale perché non ci siano più dubbi, in modo che sia chiaro che l’uno spetta a specie animali che non hanno il diritto ai diritti, condannate alla fatica bestiale, l’altro, il loro, protetto e salvaguardato, anche quando consiste nel premere il tasto che comanda il drone che sgancia bombe su civili,  nel controllare i comportamenti, i consumi e i desideri grazia a una comoda app, nel sorvegliare l’esecuzione di comandi irragionevoli e persecutori.

Ci restano poche speranze, la sommossa e ribellione delle macchine, meno asservite di noi? O la supremazia dell’intelligenza artificiale in assenza di quella naturale. (1- Segue)