Anna Lombroso per il Simplicissimus

Nutro una istintiva idiosincrasia per i best seller, romanzi che lasciano un’impronta incancellabile, film che non puoi non vedere, saggi irrinunciabili che ti spiegano cosa e come devi pensare, annunciati da anticipazioni, interviste all’autore in ritiro creativo, previsioni sulle vendite in libreria e al botteghino.

A volte mi è successo di provare a leggere il libro che è stato più regalato un paio di natali prima, ma di solito il mio pregiudizio è stato confermato. E  sarà per quello che a onta di trasposizioni cinematografiche e raccomandazioni entusiastiche di idolatri, Seta non l’ho comprato e tantomeno letto. Anche perché non sono stata risparmiata dalla somministrazione coatta di pillole di Baricco-pensiero somministrate in tutti i contesti frequentati dal poliedrico “scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, autore televisivo, critico musicale, conduttore radiotelevisivo”, come recita la voce su Wikipedia alla cui stesura immagino non sia estraneo, che ovviamente sorvola sull’accusa di aver plagiato, come una Madia qualsiasi, Benjamin.

E difatti concordo sulla pubblica definizione che diede di lui un suo illuminato detrattore dipingendolo come “giovane postmoderno internazionale: scrittore-intrattenitore, come dev’essere e come vuole che sia la piccola borghesia giovanile moderatamente colta, la buona sinistra dolce e americana”, identikit confermato dal suo impegno come fondatore e  preside della Scuola Holden, “scuola di storytelling e arti performative”.

Insomma diciamo che si tratta dell’idealtipo di un ceto che rivendica superiorità culturale sociale e anche morale grazie all’avvenuta colonizzazione del proprio immaginario  occupata dai miti modaioli del progressismo liberista, del prototipo dell’usignolo dell’imperatore contemporaneo, presenza fatale in  atenei privati,  apericene e cene del rotary, festival della filosofia e giornate culturali di repubblica o del Sole 24 Ore.

Però qualcosa deve essere successo se uno dei più “integrati” si fa tentare dal pensiero apocalittico, non quello millenaristico delle personalità cliniche che fanno la passerella su tutti i red carpet mediatici da quasi due anni, ma quello dei dubbiosi, dei critici, degli eretici, se perfino lui ha capito di dover preparare il suo domani di influencer – quando la narrazione di regime comincerà a perdere appeal e la paura lascerà il posto al sospetto e alla dissacrazione – con un lungo post che sarebbe troppo sbrigativo annoverare nell’infinita produzione dell’industria del cerchiobottismo.

E chi se l’aspettava che l’immaginifico docente di storytelling avesse l’ardire di mettere a nudo, sia pure liricamente e prudentemente, i guasti di quello del regime, le aree opache di quell’arte della guerra interna sostenuta da un racconto  catastrofista con la sua sceneggiatura di minacce e intimidazioni, ricatti e blandizie riservate unicamente agli obbedienti, con l’intento di cementare un’opinione pubblica monolitica, quella di una maggioranza  unita intorno a certezze assolute, dogmi incontestabili e comandi ineludibili.

Eh si perché perfino lui si espone scrivendo che  “se un’élite politica e scientifica non riesce a convincere la totalità dei cittadini sull’utilità di un comportamento, con tutti gli strumenti che ha, di dominio e persuasione, deve alle fine prendere atto che non ce l’ha fatta, chiedersi dove ha sbagliato, e affrettarsi a fare l’unica cosa che deve fare: ricavare il meglio dai risultati che ha ottenuto”.

Personalmente ho un’altra idea di quella dovrebbe essere “l’unica cosa da fare”, sottoporsi cioè al giudizio popolare e dimettersi, ripristinare le libertà e le garanzie sospese,  dimostrando di volersi sottrarre ai condizionamenti di potentati interni e esterni e all’egemonia del mercato che detta i suoi paradigmi come fossero leggi naturali da rispettare pena la rovina, l’emarginazione, l’esclusione, la morte civile.

Perfino lui, che ancora non resiste alla tentazione degli stilemi del  sociologismo corrente, che come al solito attribuisce alla pancia la paternità di eresie, resistenze e dubbi, reponsabile, secondo opinionisti e pensatori allineati, di produrre e autorizzare razzismo, xenofobia, sovranismo e populismo,  ammette però che i disertori del vaccino sono stati utili a dimostrare che “una comunità come la nostra conserva la propria capacità genetica di produrre eresie e di pensare diversamente da se stessa: sono anticorpi assai più importanti di quelli che ci servono contro il virus”.

Oddio non c’è tanto da gioire, l’ammissione ricorda da vicino il Blair-pensiero quando il leader più amato dai riformisti italiani ebbe a dire che era vero che la Gran Bretagna, avamposto del liberismo europeo più feroce, aveva esagerato commettendo i suoi crimini coloniali e imperialisti durante le campagne di esportazione di democrazia, ma  che riconoscerle pubblicamente indicava che si trattava di peccati veniali che non avevano intaccato lo spirito della democrazia.

Il fatto è che bisogna alzare la vigilanza, quando si materializza la “tolleranza”, quando di punto in bianco i vituperati e sciagurati populisti, la plebaglia infiltrata dalla destra con potere sostitutivo della sinistra disarmata,  i filosofi invecchiati malamente che vogliono andare controcorrente per narcisismo e  per ritagliarsi cinque minuti di notorietà sottratta ai virologi, diventano oggetto di pensoso e benevolo riconoscimento e di indulgenza.

Perché questo vuol dire che l’edificio di menzogne, persuasione violenta e sfrontata del potere scricchiola, ma al tempo stesso può significare  che a questa condiscendenza clemente nei confronti dei soci della di corporazione che “sbagliano” ma che dei quali si riconosce l’integrità intellettuale sia pure offuscata dall’età e da qualche pregiudizio,  farà da copertura alla stretta censoria e sanzionatrice nei confronti degli invisibili, quelli che non hanno tribuna,  e che  traducono nel silenzio della stampa l’eresia, il distinguersi dalla narrazione e dal credo comune,  in protesta per i propri diritti, in opposizione in difesa del lavoro e della dignità e libertà.

Il dominio delle disuguaglianze prevede che dai toni estremi di chi voleva anticipare la medicalizzazione della società cui si sta per arrivare, sottoponendo chi si oppone a Tso, trattandolo da sociopatico e squilibrato, si passi alla bonaria comprensione, all’ascolto interessato e partecipe dei pensieri antagonisti, a patto però che provengano da una cerchia affine, autorizzata in regime di esclusiva alla critica che potrebbe alla lunga diventare funzionale al potere.

Lo dimostra l’attenzione  e il consenso che da qualche giorno viene riservato a chi, appartenente al “mondo della cultura”,  distingue rigidamente l’opposizione al green pass da quella all’obbligo vaccinale, spesso dichiaratamente invocato, con l’effetto di consolidare la superiorità incontrastata della scienza e della tutela del diritto alla “salute” preminente rispetto al libero arbitrio, alla libertà di espressione e al godimento di prerogative e diritti sospesi: lavoro, istruzione, circolazione, accesso ai beni culturali.

I segnali che inviano, in alto e intorno, 100 mila persone in piazza a Roma, e di tante in altre città, le agitazioni di camionisti, del personale della scuola, di alcuni sindacati dei ferrovieri, la resistenza dei personale sanitario che non cede al ricatto, e che ricordano che questa battaglia che si sta conducendo per lo stato di diritto deve essere vinta perché a questo attentato ne seguiranno altri più cruenti, sono incoraggianti. Se perfino i comici annusano il vento contrario e se un intellettuale integrato è costretto a scoprire Gramsci, quello di una frase “il vecchio muore e il nuovo non può nascere” che è diventata uno slogan per pensatori italiani e stranieri che da tempo si misurano con la possibilità concreta di un’alternativa tra socialismo o barbarie.