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Green Precariato

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Qualche giorno fa l’Osservatorio sul precariato dell’Inps  ha reso noti i dati relativi ai contratti stagionali sottoscritti nel maggio del 2021, confermando che il rilancio occupazionale decantato dalle autorità consiste in oltre  142mila nuove assunzioni di lavoratori stagionali, “che hanno contribuito ad una variazione netta (intesa come nuovi rapporti meno rapporti cessati o trasformati) di 111mila lavoratori stagionali su base mensile”. Si compiace Il Sole 24 ore facendo intendere che complice anche la moderata ripresa dell’economia e una ripartenza del comparto turistico, il ricorso agli stagionali di quest’anno è più che triplicato rispetto all’anno scorso.

E qualcuno ne trae conferma per dire che le briciole del Reddito di Cittadinanza “non sembrano proprio determinare un calo della forza lavoro disponibile a svolgere anche lavori precari e per lo più sottopagati quali sono i lavori stagionali”. Ed è vero, ma è ancora più vero che donne, giovani, maschi di mezza età espulsi dal mercato del lavoro e pronti a qualsiasi retrocessione, hanno ceduto al ricatto infame degli esercenti di stabilimenti, bar e ristoranti, delle aziende e cooperative agricole, prestandosi a lavorare per remunerazioni vergognose, con orari incivili, sottoponendosi allo sfruttamento esercitato dalle nuove e antiche forme di cottimo e caporalato.

Ed è anche vero che con tanto cianciare di digitalizzazione, di nuove frontiere tecnologiche, delle grandi sfide dello sviluppo all’orizzonte del Grande Reset, che impongono di aggiornarsi,  di formarsi, di convertirsi per diventare un capitale umano degno di contribuire alla ricchezza dell’oligarchia, continuano a esistere mestieri “manuali”, esecutivi, ripetitivi, sporchi, nocivi, insoddisfacenti e umilianti, cui pare sia legittimo corrispondere salari incerti e avvilenti perché è uso consolidato che al brutto si aggiunga altro brutto, come quando miserabili e disperati vengono confinati in periferie marginali a fare concorrenza a altri poveri cristi, che dovrebbero appagarsi che ci sia qualcuno che sta peggio di loro, come fosse una pena o una ricompensa meritata.

Il contributo del progresso – che ha mostrato i suoi limiti quando non ha saputo- o voluto? – trovare una cura per un virus influenzale “particolarmente contagioso”, quando ha scelto di razionalizzare l’assistenza riducendola all’osso in modo da premiare la libera iniziativa privata, quando ha valorizzato talento e vocazione alla ricerca consegnando il settore all’industria – al superamento della fatica ha fatto cilecca.

Servono ancora i lavapiatti economicamente più vantaggiosi dell’elettrodomestico chiamato a sostituirli che consuma di più di un modesto salario e qualche avanzo di cucina, servono ancora i braccianti che raccolgono i pomodori, le albicocche e le olive, servono ancora quelli che aprono e chiudono gli ombrelloni adibiti ormai anche al controllo del green pass, oltre che delle imprese dei bagnanti senza ciambella, servono ancora i camerieri ai tavoli, quelle che rifanno le stanze degli hotel, gli addetti alle lavanderie e alle stirerie al servizio delle catene alberghiere e perfino gli animatori turistici, i guardiani delle piscine, i manutentori e i tuttofare.

Duole vedere come anche osservatori e analisti che si riconoscono nel pensiero socialista siano posseduti dai demoni del progressismo neoliberista quando celebrano la “tecnologia vaccinale” che ci avrebbe permesso di uscire velocemente dalla pandemia, mentre un tempo la messa a punto dei rimedi vaccinali contro i virus più disparati aveva richiesto in media dodici anni. Questa volta invece, dicono , grazie ad uno sforzo straordinario e concentrico (ma sarà mica la globalizzazione?), abbiamo impiegato meno di un anno per produrre un esteso e variegato “menù di antidoti al male” con un risultato straordinario che testimonia dell’elevato grado di avanzamento delle nostre società.

C’è poco da dire, anche i più illuminati sono riluttanti ad ammettere che il Progresso, del quale l’appartenenza a ceti privilegiati consente di godere a piene mani,  è come Giano bifronte, ha una faccia buona che si è tradotta in successi scientifici e in una sia pur disuguale diffusione di benessere, ma più avanza e più mostra quella oscura e cattiva che rafforza quelle differenze, fortifica  i già forti e indebolisce i più vulnerabili, produce affetti collaterali feroci e omologa in basso i livelli di qualità della vita, come pure le aspettative frustrate del ripresentarsi di crisi sistemiche chi impongono rinunce, sacrifici, perdita di diritti e certezze.

È così per il lavoro, altro che riscatto dallo sfruttamento e liberazione dalla fatica accompagnati da accesso a maggiori libertà, quelle che sono conquistate quando si riduce la portata dei ricatti della necessità e che ormai sono concesse in forma sempre più discriminante e arbitraria.

Quindi la tecnologia nelle sue applicazioni nel lavoro intellettuale e manuale ha perlopiù l’effetto di acceleratore dinamico dei processi, ma è uno strumento che ha bisogno di “buone intenzioni”, organizzazione razionale che si voglia esprimere distribuendo opportunità e risultati omogenei e diffusi invece di imporsi come un “regime” verticale che regola in forma autocratica i vari contesti produttivi, sociali e culturali, quelli che attengono all’immaginario ma hanno condizionato il nostro stile di vita.

Basta pensare al mito “politecnico” ormai in declino della Silicon Valley, all’idolatria dei sacerdoti, dei totem e dei “seminari” del Mit i cui catechisti, si dice che producano un pil quasi pari a quello dell’Italia, tutto localizzato in un unico territorio di un’unica regione e che ci si chiede che contributo offra e distribuisca alla collettività, se non quello di proporre un sogno, l’illusione di potersi arruolare in una classe creativa officiando i suoi riti in garage grazie a un’app.

E basta pensare a quello che è stato chiamato il capitalismo delle piattaforme, grazie a una vera e propria trasformazione del sistema che ha dato vita a una nuova forma di “impresa”, nuove modalità di estrazione del plusvalore,  che configura nuove forme di prestazioni al servizio di una attività economica di intermediazione che avviene online ma ha bisogno di un bacino di “dipendenti” sui quali pesa la artata confusione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, che consente restrizioni padronali all’attività sindacale e alla tutela dei più elementari diritti, e che per anni si sono cullati nell’illusione che non fosse cottimo la licenza di “poter lavorare quando vogliono”, di decidere se farsi sfruttare di più e h24, di scegliersi i percorsi per le consegne.

Mentre la vera ricchezza che i boss del settore accumulano non è legata alla qualità delle loro performance ma all’estrazione dei materiali di nuovi giacimenti illimitati: i nostri dati da usare rivendere, far circolare, facendo di noi a un tempo i clienti e i produttori, gli sfruttati e gli sfruttatori indiretti di un esercito di precari sottoccupati, esclusi dai benefici di Welfare salvo quelli offerti a caro prezzo da quel circolo vizioso nel quale è maestro Bezos, la vendita pressoché obbligata e a caro prezzo di fondi e assicurazioni della stessa corporation ai lavoratori. Niente Welfare, nessuna sicurezza se non quella di dover subire ogni giorno  lo stesso ricatto, o i diritti o il posto, o il salario o la dignità, e adesso o il Green Pass o il licenziamento, che tanto il mercato degli schiavi è aperto a tutte le ore.

 

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