Di certo non sono uno che ama particolarmente lo sport e men che meno la retorica sportiva dietro la quale sempre più spesso si cela la competizione fra squadre di biochimici e il prestigio di burocrazie sportive.  Se Lance Armstrong fosse stato un ciclista peruviano sarebbe stato espulso alla terza tappa del suo primo Tour de France invece di vincerne sette di fila, in quella che potrebbe essere chiamata una vera Epo – pea che nessuno ha avuto il coraggio di toccare.  E tuttavia adesso comprendo che lo spettacolo dello sport non sta negli atleti, ma nel pubblico, in quell’impasto emotivo in cui la gara ha senso e senza la quale tutto diventa artificiale e morto. Lo dico perché solo qualche giorno fa ho realizzato che sono in corso i giochi olimpici, rinviati da un anno, ma che si svolgono ugualmente in un territorio disabitato dall’uomo, con gente mascherata e smascherata a casaccio in un assurdo bailamme che già da solo racconta  la favola da ubriachi che ci viene narrata e che da una parte racconta di vaccini miracolosi che devono assolutamente essere fatti anche con la forza, ma di stadi chiusi al pubblico e dunque anche ai vaccinati stessi. E questo dopo che gli europei di calcio si erano svolti tra stadi strapieni.

Ma il calcio senza spettatori perde il 90 per cento del proprio fascino e dunque ne avrebbe perso anche il business che è poi la vera reale malattia che incombe su di noi, mentre per le olimpiadi dove tutto il giro di denaro si concentra sulla televisione va benissimo dare un’ennesima lezione di paura lasciando tutto desolatamente vuoto. Eppure non funziona: davvero chi se ne può fregare di Olimpiadi così? Quale pathos possono mai restituire? E infatti credo che a parte alcune punte gli ascolti siano al livello di filmetto scemo di trent’anni fa. Del resto questo è il mondo che ci attende vacuo nelle sue ragioni, nefasto nei suoi scopi. Che senso ha aver rimandato di un anno i giochi olimpici per poi farli disputare a porte chiuse senza spettatori, senza il villaggio olimpico, senza Giappone per un virus a bassissima letalità. E dire che le Olimpiadi di Roma del 1960 si svolsero  durante il triennio dominato dalla temibile influenza asiatica, la quale in rapporto alla popolazione mondiale causò molti più morti del Covid-19  nonostante ospedali e medici si siano prodigati senza risparmio a moltiplicare artificialmente i morti di coronavirus sui quali era possibile lucrare molto di più che sui decessi normali e anche e anche per non perdere le ricche prebende che Big Pharma distribuisce con generosità vivendi di fatti complicità.

Ma erano altri tempi, con meno possibilità di indurre una vera e propria paranoia planetaria, tempi in cui la gente voleva vivere e non sopravvivere, aveva visto e fatto la guerra non era a due dimensioni come lo schermo televisivo. E nei quali non sarebbe stato possibile che un pugno di dementi occidentali abbiano voluto bruttare lo sport cercando di umiliare la Russia con la tracotanza dei suicidi. Ma di certo queste olimpiadi del silenzio hanno danneggiato i giochi molto più che se fossero stati rinviati a tempo indeterminato come accadde durante i conflitti mondiali. Il riproporli in una versione fredda, montata giusto per questioni contrattuali,  che potrebbe svolgersi ovunque o anche in stadi e attrezzature sportive sparse sui cinque continenti, ne ha minato il prestigio, ne ha fatto dei comuni campionati d’atletica. Ne ha decretato l’inizio della fine.