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Celio, non per uomini ma per caporali

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ben prima della funambolesca fuga di Priebke, chi non viveva a Roma aveva saputo dell’esistenza di un grande ospedale militare cittadino prima di tutto per via di una straordinaria gag di Alberto Sordi buon samaritano, che recandosi a una festa di fine anno, si imbatte in un “malconcio”, un poveretto steso a terra che si lamenta chiedendo aiuto e che viene rifiutato da tutti i nosocomi chi per via della festività, chi, il Celio appunto, perché non accoglie i “civili”.

E difatti per anni è stato quello l’ospedale dove venivano conferiti i “renitenti” che dichiaravo misteriose malattie per evitare il servizio militare, che si bevevano intrugli tossici a base di tabacco, o simulavano istinti suicidi. Così quando andai a vivere proprio a ridosso dell’altro muraglione che circonda la splendida villa oltraggiata dalla megalomania muscolare dell’esercito, mi successe di vedere di sera i soldatini in pigiama che lo valicavano audacemente per regalarsi una libera uscita indossando panni civili lasciati in un furgoncino. E mi successe anche di assistere alla loro resa, sopresi da una ronda che li conduceva via come pinocchi tra i carabinieri.

Con l’abolizione del servizio militare obbligatorio, al Celio, a parte ospitare cerimonie e funerali di vittime del dovere, spettava la cura di ammiragli e generali in pensione e dei loro acri,  di ministri e autorità istituzionali, trattati, si raccontava, principescamente e la cui cura non giustificava ragionevolmente il mantenimento di una struttura e di servizi così grandiosi.

Quando una quindicina di anni fa iniziarono opere e lavori imponenti alle richieste dei residenti del rione che volevano essere informati sulla loro congruità con le leggi urbanistiche, il Comune rispose la Difesa non era obbligata al loro rispetto.

Così, impotenti, si dovette assistere alla costruzione di piani soprelevati che non vennero mai portati a termine e che facevano sospettare si trattasse della tradizione militare, quella dell’ammuina che per occupare i soldatini annoiati li fa scavare le buche per poi riempirle. Macchè, si seppe, ma sempre per vie traverse e mai confermate dagli organi competenti, che le opere si erano interrotte perché il governo centrale e la Regione erano venuti meno alla promessa di finanziarli in cambio della ipotetica possibilità che il nosocomio si aprisse ai normali cittadini. Ne ebbi conferma quando anche io mi imbattei nel mio “malconcio” steso sui sampietrini di Via Annia, che, grazie all’aiuto di un tassista disposto a trasportarlo, cercai di far ricoverare al pronto soccorso, scacciata in malo modo dai soldati alla porta.

Per anni la veduta del Celio mostrava lo scheletro corroso dal tempo e dagli eventi climatici delle “subsidenze” abbandonate come una archeologia edilizia, dove nidificano gabbiani rapaci e cornacchie insolenti, immaginatevi dunque la mia sorpresa stanotte quando il rumore di macchine da movimentazione di terra  hanno collocato impalcature e una gru smisurata, quando la strada è stata bloccata impedendo il passaggio di mezzi privati e civili, comprese le ambulanze, quando sono state proditoriamente portate via le macchine posteggiate dei residenti che erano stati tenuti all’oscuro della poderosa iniziativa.

Acrobati e alpinisti si sono arrampicati sullo stabile che ospita pie monachelle e famiglie del personale, mentre la mastodontica gru alzava carichi da novante comprese le strutture che si può immaginare debbano servire al completamento dei lavori abbandonati e oggi ripresi grazie – suppongo – a una serie di coincidenze favorevoli.

Quali? Presto detto, non sarà estraneo il processo di necessaria militarizzazione del Paese, cominciato in via letterario, semantica e linguistica con l’adozione di un linguaggio bellico che dal recupero dei sacri stilemi dell’amor patrio via via è progredito fino al fortunato slogan propagandistico che invita a stanare disertori e renitenti.

Non sarà estraneo il ruolo strategico giocato da un generale in forza alla Nato cui è stato affidato l’incarico cruciale di guidare con piglio sicuro la campagna vaccinale in ogni luogo possibile con preferenza per siti militari o comunque severi e austeri dopo i capricci barocchi di Arcuri.

Non sarà estraneo il ricorso a misure evocative di leggi marziali e stati di eccezione con lasciapassare, coprifuochi,  a conferma che serve una mobilitazione generale per combattere contro il nemico invisibile e che ogni defezione deve essere punita.

Né tantomeno sarà estraneo il fatto che mentre non c’è traccia nel Piano nazionale per accedere alle elemosine comunitarie di risorse da destinare al sistema sanitario pubblico, che in più di un anno e mezzo di “emergenza” non sia stata rafforzata la rete di reparti specialistici, non siano stati promossi concorsi per nuove assunzioni di personale medico, né tantomeno si sia finalmente deciso di irrobustire la medicina territoriale di base, le Regioni imitino il modello lombardo destinando investimenti e aiti generosi alle strutture private.

E figuriamoci se non si vorrà riservare un trattamento speciale a soggetti che rivendicano autonomia dalle leggi  e “separatezza” dallo Stato ma ritengono di avere  il diritto assoluto  di goderne dei benefici, compresa quella impunità e immunità che ha esonerato malviventi in alta uniforme e pennacchi dal pagare per una gamma di reati, alcuni dei quali, come la corruzione e la concussione, il falso in bilancio e la “rapina” molto frequentati da tutte le nomenclature civili.

Ve la ricordate la pubblicità, entra nell’esercito, diventerai un tecnico e girerai il mondo?  Adesso i nostri giovani potrebbero essere invogliati a intraprendere la carriera militare, passando dai motorini di Glovo al carro armato e dalla tastiera del gaming al drone che sgancia bombe vere, anche per trovare ricovero e assistenza, per i virus, è ovvio, che gli effetti dell’uranio impoverito non sono annoverati tra i rischi del mestiere.

 

 

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