Anna Lombroso per il Simplicissimus

Io non sapevo quasi nulla della Cornovaglia, a parte l’epopea di Morvàn di nome, Breus il soprannome,   giovane trasecolato nella boscaglia che si fa cavaliere  di ventura dopo l’incontro con quello che oggi sarebbe un sanguinario contractor.

Ma dal poco che si poteva intuire di un paesaggio di calette e brughiere incontaminate, indovinavo  che potesse essere l’ambientazione perfetta per zitelle alla Barbara Pym il cui esangue incarnato si nutre di inestinguibili pioggerelle e nebbie idratanti, o per dare collocazione geografica all’esistenza vacua e monotona degli amici di Bertie Wooster residenti in magioni e castelli gelidi e inospitali, a caccia di conoscenti superficiali da invitare ai loro week end etilici quando in casa latita perfino il fantasma di famiglia.

Ma da ieri la conosco di più quella contea, da quando è diventata la location per la scampagnata dei potenti dell’Occidente, impegnati, tra un dejeuner sur l’herbe e un omaggio all’incollabile e scorbutica nonnina, scesa da cavallo in attesa di tornarci in forma di statua equestre, a demonizzare domini concorrenti che hanno avuto l’ardire di affacciarsi sullo scenario globale.

Perché da un paio di giorni spopolano sui giornali, in tv e in rete le immagini del festosi gitanti, dei deliziosi e informali conversari seduti a quei tavolini da agriturismo che si scelgono ormai per le cresime e i compleanni dei ragazzini, dei maliziosi e spensierati giochi di mano tra Jeff e John, due figurine di Watteau impaginate in quell’arcadia così gentile, così semplice a paragone con la volgarità sgangherata del populismo straccione e corrotto in felpa o doppiopetto di Caraceni.

L’album di famiglia del G7, quei tableux vivants di personaggi ridenti e giocosi, ha rievocato in me le foto dei Romanov nelle residenze estive, della dinastia imperiale che si dedica a passatempi bucolici mentre si affaccia lo spettro che li travolgerà.

E difatti i commenti che si sono sprecati sul web erano animati dal sacro fuoco dello sdegno, da una irruenza insurrezionalista, dalla fiamma distruttrice della collera rivoluzionari.

E vorrei ben vedere, quei giulivi gitanti che ci hanno procurato disagi, privazioni di beni e libertà, che hanno fatto strame di diritti e garanzie, che per ignavia o incompetenza o feroce determinazione, hanno reso irreparabile una crisi che avevano provocato per espropriare nazioni e popoli della sovranità da consegnare nelle mani dei potentati, tra una foto di gruppo e un’intervista alla stampa cocchiera ci stanno comunicando che quella strada intrapresa va nell’unico senso possibile, rendere ancora più stringenti i vincoli, più feroce la selezione dettata dai paradigmi dell’economia, diventati leggi di natura, che protegge  e salva solo i grandi, i ricchi, in modo che diventino più grandi e più ricchi, affondando i pesi morti, i piccoli e poveri, molesti parassiti.

E ce lo fanno sapere ridendo, con fanciullesca sfrontatezza,  dandosi di gomito con ilare complicità come compagnucci di picnic che tra un crimine e un furto, una rapina e una repressione, una guerra coloniale e una strage in qualità di effetto effetto collaterale,  hanno buon diritto a distrarsi un po’ dagli affari di Stato, immortalati dai reporter convinti che i ricchi e i potenti si vendono bene, che i loro matrimoni, le loro alleanze, i loro capricci fanno vendere e fanno audience.

Con queste premesse vi sarete convinti che come mugicchi troppo a lungo umiliati, come volgo disperso che rialza la testa dal solco bagnato di servo sudor, l’opinione pubblica in rete si sia decisa a imbracciare le armi sia pure virtuali, a occupare i palazzi d’inverno e pure le dimore palladiane  estive, per andare a togliere da quella facce di tolla l’osceno sorriso, il segno fisico del dileggio, dello scherno e della derisione.

Macché, se da anni avevo deposto ogni illusione di una rivoluzione di popolo non violenta, adesso ho la conferma dell’impossibilità anche di un moto insurrezionale, di un assalto ai forni, di qualche legittimo fenomeno di brigantaggio. Il grido salito dagli atri muscosi dei social, dalle fucine stridenti di Instagram e Facebook è stato uno solo, unanime e concorde: ma non indossano la mascherina! Con l’aggiunta, robustamente emancipazionista, che invece, nelle foto degli amabili convivi del coffee break, si intravedono sullo sfondo i valletti e camerieri imbavagliati a sancire al differenza di status anche con qualche cameriere, non a caso di origine italiana, ammesso e gratificato per i suoi servigi e la sua sottomissione cieca e doverosamente  brutale ed efferata.

Sono tutti senza mascherina! Ma mica significa soltanto che i marchesi del Grillo, loro sono loro,  e noi, invece… si sentono autorizzati a distinguersi dai neomiserabili, dagli avventizi del sottoproletariato, dalla marmaglia ridotta a  straccioni che sanno solo agitarsi gli uni contro gli altri, come da sempre è nei loro progetti,  che sono legittimati  a non sottostare a comandi la cui disobbedienza in capo all’uomo della strada è sanzionabile economicamente e moralmente.

È l’ammissione che le leggi e i diktat arbitrari e discrezionali, gli obblighi ai quali il popolo deve sottostare “per il suo bene”, per “combattere il nemico invisibile e indomabile”, le misure acchiappacitrulli , largamente immotivate e ingiustificate, valgono solo per individui di serie B che meritano il novero tra i citrulli appunto, per aver dato credito a menzogna contraddittorie, a falsificazioni che si smentiscono da sole, a apocalittiche minacce e ricatti millenaristi. Qualcuno di questi non innocui creduloni, di questi patetici boccaloni, ha addirittura obiettato che la nomenclatura è autorizzata a prendersi qualche licenza in veste di avanguardia pedagogica del vaccino, come se non fosse lecito dubitare di una impennata dei consumi di soluzione fisiologica e come se in ogni paese dell’Occidente declinante alla carota della magica pozione non si accompagnasse l’inevitabile bastone della mascherina e del distanziamento, la cui vigenza è decaduta nei prati e nelle sale di   Carbys Bay.

Si, non c’è speranza se l’unica disuguaglianza che vi salta agli occhi è quella, se la sola discriminazione di cui vi risentite è il bavaglio, quando da anni vi è stata tolta la parola e la voce per gridare la vostra collera. E non vi accorgete della benda che vi impedisce di vedere.