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Letta, l’ideologo del sottovuoto

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Nel caso vi chiediate perché abbia annodato lo spago intorno alla sua valigia di cartone, abbia riposto in un cassetto i sogni che lo accumunavano a tanti altri cervelli più o meno giovani in fuga e lasciato il romitaggio parigino, ecco  la risposta: “Sono determinato, sono tornato per fare le cose per bene, non per vivacchiare, per dare una risposta ai ragazzi che se ne andavano all’estero“.

Tornato  in sella al macilento ronzino, rasserenato per aver evitato  le primarie galeotte grazie a un accordo verticistico dei tre o quattro gatti del Pd, Letta, ripreso dalla stampa a conferma del vuoto pneumatico di teste, pensieri e parole, continua a non imbroccarne una. Ha cominciato con l’invitare i giovani a darsi da fare perché non è più il tempo delle vacche grasse, dell’espressione di talenti e vocazione, e nemmeno della meritocrazia, perché “È finito il tempo in cui si andava a scuola, all’università e poi si lavorava”, ha detto a gennaio. “ Adesso per tutta la nostra vita dobbiamo adattarci, cambiare ed essere pronti”, indicando in questa duttilità e nell’obbedienza al contratto sociale che il capitale umano deve sottoscrivere con il mercato, il segreto della sopravvivenza in apnea mentale.

Verrebbe da suggerirgli, ci fosse la necessaria materia prima, di far pace col cervello: qualche mese dopo, infatti,  decide, ne abbiamo parlato a josa, di proporre una dote perché gli stessi giovani – si vede che malgrado l’età sente di appartenere a quella generazione perduta – entrino in possesso di  un tesoretto per realizzare i loro sogni segreti e concretizzare le  loro esuberanti illusioni di affermazione e successo. Un nobile  proposito a prima vista, ancorchè decontestualizzato da una realtà  nella quale la piena occupazione, la possibilità di accedere a salari e livelli di vita dignitosi per i lavoratori, il contrasto ai tagli della spesa pubblica e del welfare e  alla privatizzazione di imprese e servizi pubblici, sono diventati la cassetta degli attrezzi di visionari e antagonisti insurrezionalisti.

E ieri a nome dei giovani, incarnati nelle sardine o nei follower di coppie famose almeno quanto Sandra e Raimondo, si esprime per ripararli dalla frustrante condanna a lavori servili e opere manuali, quelle che il suo amico di partito presidente dell’Emilia Romagna, in ritardo sulla storia,  vorrebbe far svolgere ai percettori di redditi di cittadinanza e aiuti. Dando una soluzione che combina il diligente ossequio alla retorica politicamente corretta dell’integrazione purchè nelle periferie, nei cantieri, nelle officine, nei campi e non all’Argentario, con le dottrine keynesiane rilette a Rimini dal commissario liquidatore: resti in capo a loro, alla meglio gioventù italica,  il lavoro intellettuale di oggi e quello futuro promosso dalla rivoluzione digitale, mentre spetta agli immigrati, in veste di graditi ospiti, rispondere all’offerta generosa delle imprese che cercano manodopera a basso consumo e ancor più basso standard di bisogni e dignità, in vista della prepotente ripresa tramite edilizia, opere infrastrutturali, logistica.

A lui che se ne intende di divisione del lavoro, Sohn Rethel, in esilio pure lui a Capri per sfuggire all’inflazione, je spiccia casa, convinti ambedue della incontestabile e insuperabile divisione tra Mano e Mente così come  della necessità di reperire antidoti alla regressione sociale e culturale di una borghesia impoverita, condannata  a mestieri “fisici” gregari, esecutivi.

Ma   il nipote del conte zio  risolve il problema più sbrigativamente forte della consapevolezza che i manovali non pensano,  riservando, come un Max Weber de noantri,  ai rampolli del ceto dirigente le conoscenze e le incombenze in capo all’oligarchia, compreso il disinvolto tesseramento  in tutti i partiti dell’arco costituzionale, in tutte le cosche  e logge, Trilateral, Aspen Institute, Fondazioni,   Nato, banche , accademie, cavalierati del lavoro e think tank, e delegando invece ai poveracci, sicuramente immeritevoli, meglio se stranieri, la fatica, il solco bagnato del servo sudor, i cantieri della ricostruzione, le impalcature che se cadi è colpa tua, improvvido fattore umano che non sapendo proteggerti metti a rischio anche i generosi e ingenui datori di lavoro.

Sulle tipologie di occupazione, è immaginale che verrebbero applicate le regole che hanno ispirato la gestione della “pandemia”, la governabilità tramite algoritmi che ingloba  nella base statistica ogni azione calibrandola sui dati macroeconomici della produzione e dei consumi, in modo da fornire  indicazioni per l’esercizio di alcune attività, quelle manuali e più esposte, ma essenziali delegate ai terzi mondi- esterni e interno- altre invece dalle quali sono esonerati ceti soggetti a protezione in quanto parte attiva e futura del ceto oligarchico.

Come si dice, prima o poi i nodi vengono al pettine, facendo affiorare la vera qualità della xenofobia e del razzismo che individua l’altro da discriminare e sfruttare nel pubblico sempre più vasto di poveracci, il frequentatore della moschea in cantina e non l’investitore a nome die fondi reali degli emirati, quello sì compatibile con la nostra civiltà superiore.

È che è un tema che segue andamenti ciclici: c’è stato un tempo nel quale gli immigrati erano un investimento, gli si dovevano aprire le porte per accogliere nuove e originali  risorse intellettuali godendo delle opportunità della globalizzazione e traducendole in scambi fertili e portatori di una civilizzazione aperta e connessa come nella cucina fusion, trippa e kebab.

Poi  era diventata legittima la pretesa di controllare e regolare l’immigrazione, per contrastare i pericoli di un allarmante meticciato che avrebbe diluito in una melting pot rischioso valori tradizionali e identitari, ma anche per rispondere all’istanza “morale” di prendere atto dell’impossibilità di garantire un’accoglienza umana a chi arrivava, tanto da fare preferire  la stipula di contratti e protocolli a sancire l’alleanza con tiranni e despoti  sanguinari, accordarsi con guardianie e milizie di macellai, adottare per i porti la simpatica confezione dell’apri e chiudi con l’esito di far partire gli illusi e poi lasciarli crepare in mare. E poi è arrivato il tempo della legittimazione della paura del diverso autorizzata a norma di legge da provvedimenti in materia di ordine pubblico, lotta alla criminalità e tutela del decoro,  a cura di Minniti, consolidata da Salvini, edulcorata dal Conte 2 dopo che aveva recato la firma in calce del Conte 1, con l’aggiunta dei timori largamente condivisi che sui barconi con potenziali terroristi scendessero a riva sicuri untori.

Superfluo dire che queste varianti della percezione diagnosticate  su campioni di opinione pubblica sono al servizio degli andamenti del mercato del lavoro, a segnalare quando serve manodopera che sostituisce gli indigeni che non si prestano a mansioni servili, a registrare che il ricambio è stato esagerato e che gli stranieri se non sono assoldati come manovalanza del crimine, rubano comunque, il posto agli italiani, a far decidere che è il momento di creare le condizioni, magari con qualche impresa bellico/umanitaria, di far dirigere eserciti di merce lavoro affamata e scadente  verso paesi che li impiegano fruttuosamente come potenziale competitivo e concorrenziale rispetto ai lavoratori locali, per via della loro ricattabilità che fa accettare condizioni inumane e paghe vergognose, con l’effetto di trascinare vero il basso anche le pretese degli italiani.

Siccome ogni tema e ogni problema da noi si riduce a baruffa domestica all’ombra di campanili post ideologici, forse Letta ha pensato di fare opposizione a Draghi che ha fatto intendere che la gestione dell’immigrazione deve ridursi all’efficientamento dei rimpatri, forse si è convinto di interpretare il sentiment  di un ceto “nobile” culturalmente, socialmente e moralmente superiore che addomestica lo slogan salviniano “prima gli italiani”, in vista di fertili sintesi della ruspante concretezza leghista con la vocazione “umanitaria” del Pd. Che poi non sarebbe la prima volta, mica c’è stata solo la Bossi-Fini, mica c’è stata solo la legge Maroni, a far concorrenza c’è stata la Turco-Napolitano, e poi la speculazione oscena sui braccianti della Bellanova, a segnare il solco, lo stesso delle tendenze auspicate per il neo colonialismo della campagne di cooperazione in Africa. E chissà che non torni in auge l’altro slogan, finché c’è guerra c’è speranza, a favorire il rinfoltimento  delle popolazioni  oggetto di interesse commerciale da parte dei trafficanti di schiavi.

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