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Afghanistan, l’armata dietrofront

Anna Pulizzi per il Simplicissimus

La si potrebbe definire la Guerra dei Vent’anni ed è quella che va concludendosi in Afghanistan con il ritiro delle truppe d’occupazione straniere, già iniziato da mesi e che dovrebbe essere ultimato entro settembre. La definizione è tuttavia azzardata, dal momento che la guerra è un periodo in cui si spara più del solito, mentre nel caso specifico si è combattuto molto anche prima e tutto lascia immaginare che lo si farà ancora di più nelle fasi immediatamente successive.

Iniziata all’indomani del cedimento delle strutture portanti delle torri gemelle a New York, quest’ultima fase ventennale dell’imperituro conflitto afghano potrà essere ricordata come una costosissima invasione priva di moventi geopolitici ed economici ma anche come tappa introduttiva al vero bersaglio del momento, cioè il nazionalismo arabo incarnato da Saddam in Irak così come più tardi diverranno obiettivi Gheddafi in Libia e Assad in Siria. Dato che perfino agli americani non poteva sfuggire l’insegnamento fornito dai precedenti insuccessi inglese e sovietico nel controllo del territorio afghano, l’intenzione era quella di applicare il metodo del light footprint (’impronta leggera’), che significa in sostanza impiegare il minimo possibile di truppe, evitare di impantanarsi in continui combattimenti terrestri ed esercitare un dominio indiretto attraverso la collaborazione interessata dei maggiorenti locali e dei signorotti dotati di proprie cerchie armate.

Edward Luttwak, l’eccentrico politologo spesso ospite negli studi televisivi da Santoro a Floris e oltre, in un suo saggio degli anni Ottanta paragonò tale metodo a quello tipico della Roma imperiale, laddove il collaborazionismo delle élite dei popoli conquistati, profumatamente motivate, evitava gli oneri di una massiccia presenza militare. Ma c’era evidentemente una differenza rispetto a quei tempi, poiché le élite provinciali di allora aspiravano ad essere inglobate nel ceto dominante dei conquistatori e ne assorbivano volentieri gli elementi culturali, divenendo così convinte ed influenti agenti dell’invasore, il cui potenziale militare era percepito essenzialmente come forza di dissuasione. Nulla del genere era possibile in Afghanistan, dove la presenza occidentale era chiaramente transitoria e del tutto aliena dal contesto culturale locale. I 150mila soldati messi in campo da una quarantina di paesi erano qualcosa di più di una ‘impronta leggera’ e tuttavia del tutto insufficienti per permettere un controllo del territorio al di fuori dei centri maggiori e delle strade che li collegano. Anche le 3500 perdite sostenute dalla coalizione, confrontate con le 26mila accusate dai sovietici, che pure rimasero nel paese per metà del tempo, indicano il diverso livello di impegno sostenuto.

Certo, una qualche speranza di successo per i disegni degli occupanti (ammesso che ne avessero qualcuno), si sarebbe palesata se l’invasione avesse portato con sé un aumento del benessere, ma ciò non è avvenuto e d’altra parte nelle teste degli strateghi a stelle e strisce la cosa non era ritenuta essenziale e non lo è stata nemmeno in altri scenari. Si continuava a mantenere truppe in Afghanistan, con un esborso che alla fine ha sfiorato i duemila miliardi di dollari (come se avessero fatto 12 piani Marshall) per i soli americani, senza contare le spese sostenute dagli ascari giunti da altri paesi, tra cui ovviamente il nostro. E si continuava a mantenerle per il semplice fatto che in presenza di un nemico onnipresente e pure molto attivo, il disimpegno equivaleva ad una fuga, esattamente come in Vietnam molti anni prima, con conseguenze politiche che nessun presidente intendeva sperimentare. A parte Trump, che tagliava la testa al toro tramite un accordo firmato a Doha con i rappresentanti dei talebani ma scavalcando e quindi delegittimando il governo-fantoccio di Kabul, ormai inservibile per qualsiasi operazione.

Ora nessuno scommette un centesimo sulla durata delle istituzioni afghane, mentre i talebani avanzano quasi senza incontrare resistenza, abbondantemente equipaggiati con le armi che gli occidentali continuano a vendere a sauditi e pakistani, così che per l’industria bellica il cerchio si chiude magnificamente ed ogni proiettile sparato da una parte o dall’altra va ad aumentare i profitti. Naturalmente il problema non è solo di ordine militare. Dopo vent’anni di occupazione, o se si preferisce di apparente liberazione dal furore teocratico, la disoccupazione nel paese è ancora del 40%, quella femminile addirittura il doppio, la malnutrizione è presente nel 42% dei bambini, l’energia elettrica un sogno per oltre il 60% degli abitanti.

La condizione delle donne, che più di ogni altro elemento aveva giocato un ruolo nel giustificare l’intervento presso l’opinione pubblica occidentale, è mutata solo in minima parte. Se è vero che nel parlamento di Kabul vi sono più donne che nel Bundestag tedesco e quasi tre volte quelle che siedono a Montecitorio, gli effetti dell’enorme povertà e della cultura patriarcale fanno sì che il processo di emancipazione abbozzato sulla scia dell’occupazione straniera sia del tutto superficiale e precario, mentre solo il 18% delle ragazze ha accesso alla scuola ed il 70% di loro è costretta al matrimonio sulla base di quanto deciso dalle rispettive famiglie. Il prevedibile ritorno in scena dei talebani tenderà ad annullare ogni pur timido progresso in tal senso, anche se forse incontrerà maggiori resistenze. Al confronto, prima che la controrivoluzione islamista finanziata dagli Usa e dai loro vassalli portasse il paese alla guerra permanente, i successi dei governi socialisti afghani da Taraki fino a Najibullah appaiono inarrivabili. Ma quelli erano ambienti politici che al di là di ogni carenza o inciampo lavoravano per un Afghanistan laico e culturalmente evoluto, mentre lo spirito dell’espansionismo occidentale è del tutto avulso da tali propositi e vive solo in virtù dell’interesse economico, oppure come ostacolo per i paesi che al dettato di tali interessi intendono sottrarsi.

Al tempo di Gorbacëv i sovietici tra le altre cose abbandonarono anche l’Afghanistan, che scivolò nel tunnel della guerra civile e poi nella dominazione teocratico-feudale. L’ultimo consigliere militare russo in zona, il gen. Garayev, disse che “bisogna prendere gli afghani come sono e non come noi vorremmo che fossero”. Era un modo per dire che un esercito non può combattere contro una cultura. Forse non è nemmeno giusto che ci provi. Se poi si tratta di un esercito il cui unico obiettivo è quello di giustificare le spese per il suo sostentamento in attesa che qualcuno ordini il dietrofront, l’esito è ancora più grottesco.

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