Luca Carbone per il Simplicissimus

Come ci ha puntualmente aggiornato il Simplicissimus, uno dei motivi – anche se non il principale – per cui essergli grati, gli Statunitensi hanno scomodato niente meno che il mitico MIT (Massachusetts Institute of Technology), una delle più prestigiose istituzioni scientifiche al mondo, per fare a pezzi quelli che i neo-inquisitori gesuitici nostrani – riverniciati con l’anglicismo debunker per cambiare pelle e sembrare smart, esasperando i vecchi vizi italici – bollano come “negazionisti”, insultando la memoria sacra di milioni di ebrei, di rom, di slavi, di omosessuali, di diversamente abili; seguiti a ruota, i debunker loyoleschi, ed amplificati dai giornalisti mainstream, ai quali la qualifica di “megafoni meccanici”, può ormai essere applicata a cuor leggero (per i curiosi: il funzionamento di questi meravigliosi ritrovati, assomiglia a quello dei juke-box; l’unica differenza è che hanno graduato e perfezionato il meccanismo della monetina singola, più se ne immettono, di monete, più aumenta e varia il volume del megafono; ma ormai attendiamo fiduciosi l’evolversi della più affidabile e meno onerosa Intelligenza Artificiale, nel ramo).

Eh sì, l’Ammerigani so forti! Mobilitano risorse immani per scoprire l’acqua calda; che per loro è stata però anche una specie di doccia fredda. E lo sarebbe anche per “noi”, se in Italia qualcuno, di quelli che possono e debbono, ancora leggesse, cioè ascoltasse, e non si limitasse a contrurlare cantilene prestampate. Così il MIT ha “scoperto” – udite udite! – che non tutti i no-mask, tampinati dai ricercatori mitiani per mesi e mesi su Twitter e su Facebook, vengono per nuocere, o, detto meglio, ricorrendo alle sempreverdi idee chiare e distinte, che, come cittadini, non siamo tutti un’orda di deficienti.
Pensa la meraviglia, in quelle che quei buontemponi dei sociologi già più di vent’anni fa, almanaccavano di definire come “società della conoscenza”, accorgersi che ci sono consistenti gruppi di cittadini “liberi” che sono in grado di leggere ed interpretare una tabella di dati, che sono in grado addirittura di risalire alle sorgenti delle visualizzazioni, ai dati grezzi, che sono in grado, fatto davvero inesplicabile, di costruire a propria volta delle “contro-visualizzazioni”, e pure, l’enigma s’infittisce, di discutere i limiti di affidabilità sia delle fonti e delle tabelle ufficiali dei dati, sia, mon dieu, delle proprie stesse esposizioni; e non soddisfatti di questo, siamo ai confini del mistero, sono persino in grado di discutere su un piano di parità con altri, sono in grado di progressivamente “alfabetizzarli” qualora non lo siano, e li spronano addirittura a
verificare ed estrapolare i dati da sé, e a costruire le proprie autonome visualizzazioni, ed a condividerle e discuterle nelle più ampie cerchie possibili. “Dove andremo a finire, signora mia?

Questi vaccari americani, s’immaginano persino che «la scienza è un processo e non un’istituzione» e addirittura che è scientifica la crescita del dubbio. È proprio vero quello che dice San Fauci: «questi non credono alla Scienza»!”. Quindi dicevo, il MIT ha accertato, con tanto di prove e visualizzazioni, e con un’ampia letteratura teorico-empirica di supporto, che non siamo tutti un branco di “deficienti”, nel senso etimologico, nessuno si inalberi, di “mancanti”, in questo caso, di attributi “pensanti”. Naturalmente la scelta di concentrarsi sui così detti anti/no-mask non è politicamente neutra, perché, detto tra noi, trovare gli stessi risultati per i no-vax sarebbe stato un tantino troppo sconveniente “colà dove si puote”: manco il MIT se lo può permettere.

Ma i Mitiani non si sono limitati a questo, che pure non è poco, hanno dovuto osservare e riferire che: “…i
follower in questi gruppi hanno usato l’analisi dei dati per rafforzare l’unità sociale e creare una comunità di
pratiche. E mentre valutano altamente l’expertise scientifica, questi gruppi vedono anche l’analisi collettiva dei dati come un modo di tenere assieme le comunità in un tempo di crisi, e che essere capaci di analizzare trasparentemente e spassionatamente i dati è cruciale per la Governance democratica”. E per soprammercato che questi “gruppi sono stati incredibilmente efficaci nel galvanizzare un network di cittadini impegnati in azioni politiche concrete”. Insomma i ricercatori del MIT hanno dovuto ammettere e riconoscere che i no-mask sono riusciti ad agire, e soprattutto interagire, come una “mente collettiva”.

Qualche fine teorico scafato mi vorrà perdonare se mi soffermo su questo punto in maniera un po’grossolana, e se faccio tanta scena per il “segreto di Pulcinella”, tuttavia l’overdose dell’ideologia, che ci viene somministrata in Occidente a dosi sempre più massicce da quattro decenni, e che vorrei ribattezzare all’uopo, neo-divistico-liberista – il cowboy Reagan assumiamolo come l’Alpha, e il governatore Terminator come l’Omega – ha messo la decisività della “mente collettiva” quasi totalmente in ombra, almeno nella percezione e consapevolezza dei più, spingendo in primo piano l’individualismo solipsistico.
Questa deformazione prospettica impedisce di vedere, di percepire, di pensare la “potenza” della “mente collettiva”. O almeno lo impedisce a “noi”, ma forse non lo impedisce al grande Capitale, i cui membri sparsi per il pianeta sembrano essere stati i più attenti lettori del Das Kapital di Karl Marx; più senz’altro di molti sedicenti marxisti. Che la scienza quale “mente collettiva” potesse diventare una funzione eminente dell’apparato industriale di produzione, e come tale una funzione centrale nell’affermazione e nell’espansione planetaria del capitalismo – “il sapere sociale generale è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso” – Marx lo aveva perfettamente antiveduto. Uno dei più simpatici aggiornamenti – anche per il mordace humour dello stile – di questa parte della teoria marxiana lo si può trovare in un ormai stagionato volume dell’economista americano John Kenneth Galbraith, Il Nuovo Stato Industriale, che coniò o rese celebre il termine-concetto di tecnostruttura. Come insegnavano in aula i sociologi fresconi la tecnostruttura è “data dall’insieme, anzi dalla combinazione, dalla combinazione e interpenetrazione di quelle competenze specialistiche, ruoli e funzioni, che governano le funzioni dello Stato, in relazione alle politiche di sviluppo e di quelle altre competenze, ruoli e funzioni che assicurano la gestione efficiente e innovativa delle grandi imprese”.

Il neo-divismo-liberista accende le luci dei riflettori sempre e solo sulle presunte grandi menti singole – un Jobs, un Gates, un Bezos, un Musk, un Zuckerberg, un Brin, un Obama, un Trump, un Biden, un Putin, uno Xi – ma tanto questi, quanto soprattutto quelli, possono quello che possono, e fanno e disfano quello che fanno e disfano solo e soltanto perché hanno a propria costante disposizione potentissime “menti collettive”, alias “tecnostrutture”, che sono parte decisiva degli apparati produttivi e riproduttivi. Ed è con l’immensa e incalcolabile “forza lavoro” della nostra, inconsapevole di sé, “mente collettiva” che noi paghiamo in oro sonante – persino io qui mentre scrivo e voi mentre leggete e condividete o non condividete – Google e Facebook e Twitter e chicchessia altro gestore dei social, delle reti e dei software. Della nostra preziosissima “privacy” di cui tanto si parla, non importa realmente nulla a nessuno – salvo non farla diventare una statistica dei “sentiment” o una potente arma politica di annientamento se qualcuno di noi dovesse riuscire ad emergere dal flusso e catalizzare intorno a sé un reale antagonismo: infinitamente più prezioso è l’inesauribile lavoro intellettuale di miliardi di menti – monitorato istante per istante in ogni angolo del pianeta. E purtroppo per noi la prima consapevolezza delle elaborazioni della nostra “mente collettiva” è una, per così dire, consapevolezza algoritmica, che probabilmente si forma a nostra totale insaputa in pochi mega-centri di Data-Warehouse, grazie ad algoritmi codificati per “interrogare” le medie e le devianze di miliardi e miliardi di dati-pensiero in ingresso.

Se non si fosse acciecati dai pregiudizi ideologici che datano da due secoli fa, e da ontologie che datano da due millenni fa, sarebbe facile vedere come la peculiare grandezza di Gramsci sta nell’aver individuato e indagato a fondo (coi mezzi che aveva nelle galere patrie) – sul piano concettuale ed operativo – il formarsi ed il funzionare di una “mente collettiva”, quella che Lui classicamente chiama “partito”, all’altezza delle sfide delle società complesse e di massa, non più metafisicamente garantite da ancoraggi ultraterreni. Questo tentativo motiva la sua singolare affermazione che ogni membro del partito deve essere un intellettuale, cioè appunto una componente attiva della “mente collettiva”.

Un’affermazione che, naturalmente, è stata interpretata in chiave “idealistica”, come se Gramsci non si fosse mai veramente liberato dalle dande crociane; mentre  Egli si riallacciava, in gran parte consapevolmente, ad una più profonda tradizione del pensiero italiano, creata agli albori dell’epoca moderna, dal primo vero teorico mondiale della “mente collettiva”, o “mente sociale”, Giambattista Vico; una tradizione tutta da ritracciare ma di cui fa parte senz’altro una breve opera di Carlo Cattaneo che si potrebbe considerare, nonostante il titolo, una delle prime trattazioni di “sociologia della conoscenza”;
quella “Psicologia delle menti associate” dove possiamo leggere: “il genere umano è, per sua primitiva e spontanea necessità, gregario e sociale”, e che “l’atto più sociale degli uomini è il pensiero, poiché congiunge sovente in un’;idea molte genti eziandio fra loro ignote e molte generazioni”. Tutto ciò motiva, altro punto su cui si è speculato vacuamente – l’estrema attenzione di Gramsci per la Chiesa cattolica –poiché ad oggi è il modello più efficace e duraturo di “mente collettiva” che l’umanità occidentale abbia elaborato – ed è questo l’aspetto che le ha garantito e garantisce il dominio “temporale”, e non solo quello spirituale; poiché non è certo l’infallibilità papale, cui non credono più nemmeno le statue in Vaticano, o la grazia del Salvatore, il cui Regno, l’ha detto chiaro, “non è di questo mondo” e risplende nei gigli dei campi, non nelle porpore cardinalizie. E d’altro canto, come ha visto per primo Vico, e come ha confermato un paio
di secoli dopo l’ultimo Durkheim, la religione, ben prima del Vaticano, è stata la prima forma di “mente collettiva”, con la quale l’Umanità si è fatta fabbro della storia umana.

Gramsci, come pochi altri (non è stato l’unico, per carità, non un’altra ‘ortodossia’!), sapeva benissimo che non poteva formarsi una nuova “mente collettiva” senza una qualche misura di coercizione delle menti individuali, ma sapeva altrettanto bene che una combinazione solo meccanica ed imposta dall’esterno di menti individuali avrebbe generato non una “mente (e volontà) collettiva” nella quale confluissero e si condensassero le libere energie sociali, ma, come sta puntualmente accadendo in Occidente, avrebbe generato formazioni gerarchico-castali, tecnostrutture dominanti e sfruttanti le “energie collettive” dei popoli. Così come sapeva bene che la scienza è uno dei processi più potenti della mente collettiva, ma proprio per questo si domandava se fosse sufficiente da sé sola a dare nuove forme alla società.
Gramsci ha sondato il guado in cui è tutta l’epoca. Nessuno s’illuda: chi non riuscirà ad attraversarlo sarà travolto dalle correnti, e l’aggrapparsi spasmodicamente al salvagente dell’Ego non lo salverà.

PS. Dopo Leopardi e Nietzsche e dopo un secolo di discussioni parigine sulla centralità del ‘corpo’ non mi
sembra il caso di rimarcare che la “mente collettiva” è anche sempre un “corpo collettivo”.
NB. Per i pedanti sempre in agguato: la citazione da Marx è tratta dai Grundrisse, ma il ‘soffio’ della storia
non cambia.