Anna Lombroso per il Simplicissimus

Voglio raccontarvi un episodio di vita vissuta. Per ragioni famigliari conoscevo bene un Presidente del Consiglio che si era reso impopolare per via dell’imposizione di un prelievo sui conti correnti. Ebbene, camminavo per Via del Corso, quando si ferma un’alfetta blu e ne scende proprio lui, mi si avvicina e mi chiede notizie dei miei congiunti.

E’ un’ora morta, non gira nessuno salvo una coppia di coniugi di mezza età, lui con un’aria modesta a intimorita, lei col cappottino con il collo di pelliccetta e una di quella immancabili borsette rigide. E ecco che mi si avvicina brandendola come un’arma impropria che mi colpisce mentre lei strilla contumelie contro di me colpevole di “essere in amicizia” con quello che le ha sfilato quattrini sudati dal conto. Ho ricostruito il quadretto non per sottolineare la persistenza nel costume patrio di dirottare il dissenso su stadi intermedi e contigui piuttosto che sugli attori protagonisti e colpevoli del danno, ma per riportare la frase con la quale il marito impensierito la apostrofò, tirandola via: Non facciamoci riconoscere!

Non facciamoci riconoscere è da sempre il primo comando di ceti piccolo borghesi preoccupati di non essere accettati in alto, di non saper celare origini modeste, convinti che sia necessario nascondere come una vergogna povertà, debiti, e soprattutto istinti di ribellione, inaccettabili per principali e dirigenti, deplorati dagli opinionisti della stampa locale, che vanno repressi e confinati in certi tinelli magistralmente illustrati dalla matita di Novello.

Adesso, quando continuano a dirci che provvidenzialmente è stata superata la divisione in classi, come quella tra destra e sinistra, concetti arcaici da quando l’odio sociale viaggia alla rovescia, ricchi contro poveracci e oligarchi contro plebei, da quando ci è negato il riconoscimento di classe disagiata per promuoverci a società signorile di massa, che comprende tutti quelli che godono di ben 500 euro sopra lo standard base di sopravvivenza, ecco adesso Non facciamoci riconoscere è l’invito che arriva dall’alto ma anche orizzontalmente e perfino dal basso, ogni qualvolta dimostriamo sfrontatamente di voler reagire, nemmeno con una sassaiola, men che mai prendendo una bastiglia, ma esprimendo la nostra collera a parole, diritto ormai largamente circoscritto e censurato.

E difatti basta guardare i commenti, ma non solo sulla stampa che non siamo più autorizzati a chiamare “cocchiera”, anche se ogni giorno rimpiangiamo Agenza Stefani e notiziari Luce,   sui social, sui blog, alla circolazione di pensierini in rete, in merito ai disordini di ieri quando migliaia di ambulanti e ristoratori hanno protestato in più città italiane contro le chiusure delle loro attività e per chiedere immediate riaperture. Ci sono stati scontri a Roma, davanti a Montecitorio, dove alcuni manifestanti hanno cercato di sfondare le transenne lanciando bottiglie contro la polizia, che ha risposto con le tradizionali “cariche di alleggerimento”. A Milano gruppi di ambulanti si sono riuniti in piazza Duca d’Aosta, davanti alla Stazione centrale, e hanno fermato il traffico sulla circonvallazione. Sull’A1 centinaia di operatori dei mercati hanno parcheggiato in mezzo alle carreggiate camion e furgoni nei pressi dello svincolo per Caserta Sud, bloccando l’autostrada per ore.

E tutti a sottolineare l’infiltrazione di gruppi organizzati dell’estrema destra,  a dargli addosso per toni, slogan e grida “fascistoidi”, a recriminare che se alla manifestazione presenzia Sgarbi, reo di non essere sottosegretario nel governo dei Migliori, allora la credibilità è compromessa, che se berci come in Salvini d’antan, ormai redento e affiliato, se dai in escandescenze sputazzando dietro la mascherina come un energumeno o un Grillo qualunque, ormai arruolato nel sobrio progressismo, allora legittimi le istanze di chi vuole censura e repressione, Tso e sanzioni, perché appunto ti sei fatto riconoscere, come antidemocratico, populista, no vax e negazionista, in sostanza “fascista”.

 Ormai il discrimine è quello segnato da reticolati profilattici che coincidono con quelli di ordine pubblico, da quando la crisi sanitaria ha imposto non solo imperativi e obblighi di “sicurezza”, ma comandamenti “morali” incentrati sulla “responsabilità” in carico unicamente alla gente normale, essendo decisori e padroni automaticamente esonerati per via dell’alto compito affidato loro dalla Provvidenza,  sulla centralità delle pratiche penitenziali richieste dall’emergenza, secondo le quali sono ormai proibiti ogni piacere e  ogni gratificazione, oltre ai diritti da subito sospesi, compreso il voto,  per via del lutto.

Che poi anche quello è a carico di tutti fuorché di quelli che hanno contribuito allo smantellamento del sistema di cura e assistenza, che hanno prodotto tali danni sociali o da autorizzare l’accelerazione del passaggio da adulti che devono contribuire allo sviluppo ritardando l’età pensionabile a  vecchi inutili da conferire in Rsa, lasciar morire soli nelle corsie dei lazzaretti, come se la loro fine precoce e solitaria rispondesse ai criteri di leggi naturali, da dividere la popolazione, in aggiunta alle consolidate disuguaglianze, in esposti al rischio in qualità di “essenziali”, sommersi in posti di lavoro insalubri, mezzi pubblici affollati, e “salvati”, almeno dal morbo, che nella rovina siamo destinati prima o poi a precipitare per via di tagli alle remunerazioni, variazioni contrattuali, diminuzione del potere d’acquisto.

Ma non basta, ci vengono date anche regole di comportamento improntate al bon ton del politically correct, che impongono che, prima di ogni cauta obiezioni vengano esibite le doverose credenziali di appartenenza al consorzio civile, estatica idolatria della scienza incarnata dalle health-star, esibizione anche sul profilo della celebrazione del rito vaccinale, ridicolizzazione dei dissidenti e dei dubbiosi annoverati tra terrapiattisti e orfani del mia abbastanza compianto Giulietto  Chiesa, si aderisca alle regole dei vecchi servizi d’ordine in odor di stalinismo alle manifestazioni del passato remoto, non accettare la provocazione, non rispondere con reazioni violente alla violenza, come se in situazioni di evidente soppressione di diritti e democrazia spettasse alle vittime rispettarne a tutti i costi i criteri e le regole cancellate, accettandone di nuovi, mai abbastanza provvisori, incompatibili con una gamma di valori e principi che sembravano accettati e inalienabili, in una parola, ingiusti.

Non facciamoci riconoscere, è un invito alla moderazione rivolto anche a me ieri, che mi sono resa colpevole di aver adombrato delle  motivazioni per la insana spesa di oltre 250 milioni di euro per la realizzazione di campi di accoglienza per popolazioni costrette ad abbandonare le proprie abitazioni. Oltre alla ipotesi che si trattasse di una specie di recovery senza restituzione dedicato a soggetti esclusi dalle elargizioni pandeconomiche, o che fosse un argomento in più a disposizione della narrazione millenaristica con l’aggiunta di altre catastrofi (qualcuno continua a rammentarci che sarebbe prossima un’invasione di extraterrestri stufi delle nostre intemperanze), mi sono permessa di immaginare che in previsione dell’aumento della scontentezza e del disagio, si sia pensato di confinare sfrattati e disoccupati effetto dei prossimi sblocchi, in situazioni di marginalità per contenerne il rischio sociale. A me parevano tutte e tre e quasi alla pari, motivazioni inique e deplorevoli. Macché.

Apriti cielo, mi sono fatta riconoscere come visionaria apocalittica, pericolosa per la causa comune che esige di contenersi mimetizzandosi nel pensiero mainstream, nei suoi modi di comunicazione, nei suoi stilemi.

E poi per uno i soldi sono pochi, sarà una pastetta delle solite, come se non fosse oltraggioso destinare un investimento considerevole per sfamare chi ha pane, per altri invece, sarebbe una ipotesi irrealistica, come se non superasse qualsiasi fantasia malata e cospirazionista il film di un paese costretto da un anno a andare in rovina, a rompere vincoli sociali e familiari, a mascherarsi per riconfermare l’opportunità di non sorridersi, parlarsi, baciarsi, a perdere beni, istruzione, libertà per tenersi stretta una sopravvivenza, intesa come immunità, incerta e provvisoria, da una specifica malattia, solo quella.  

Ma non sarà ora di farci riconoscere per quel che siamo, umiliati, incazzati, traditi, offesi e per quello che  vogliamo invece essere? Liberi di pensare, dubitare, esprimerci, criticare, desiderare, capire, sapere e far sapere?