Anna Lombroso per il Simplicissimus

Un rapido ripasso sul Bignami ci informerebbe che il  tema hobbesiano della paura attraversa tutta la storia della teoria politica, da Machiavelli ai giorni nostri, sia costituendo il nocciolo fondativo del potere assoluto del Leviatano, sia esaltando la qualità morale del principe che ne sappia governare gli effetti. 

Ma non occorre aggiungere Bauman all’excursus per capire che è invece recente la sua promozione a virtù civica, in grado di promuovere quell’obbedienza diventata  auspicabile manifestazione di senso di responsabilità, attitudine al sacrificio doveroso di diritti finora irrinunciabili, per la manutenzione di quello alla salute del corpo, compromessa da anni di abdicazione dalle prerogative di cittadini costretti a assistere come meritata penitenza  al crollo di quell’edificio   di sicurezze, compresa quella “sanitaria”, che avevano costruito.  

E invece ecco che nel commentare il sondaggio Demos condotto alcuni giorni fa, Ilvo Diamanti rileva come “la preoccupazione, o meglio: la paura, suscitata dal contagio abbia raggiunto il livello più elevato dal mese di marzo 2020″, coinvolgendo oltre 9 italiani su 10. Che, nella maggior parte dei casi, si dicono “molto” preoccupati.

Non è una sorpresa, dice. Invece è una sorpresa che per il navigato sociologo sempre sul pezzo, sia lecito confondere la più triste delle passioni – più triste a sentire Spinoza della speranza, anche se ambedue sono emozioni isolano e spengono il fuoco della ribellione e del riscatto – quindi un sentire emotivo, con la più razionale preoccupazione, l’inquietudine che deriva dalla consapevolezza e conoscenza di quello che abbiamo intorno, e che trasforma, a volte senza la nostra diretta responsabilità, l’aspettativa del futuro in una minaccia.

Uno dei successi dell’ideologia pandemica, aiutato dall’autorizzazione a comportamenti solipsistici e asociali diventati obbligatori, fino alla sociopatia favorita e promossa per reprimere  atteggiamento “negativi”, come la critica e il dubbio, consiste infatti nel riscatto dell’emotività, della perturbabilità, normalizzandone gli eccessi in veste di naturale reazione all’apocalisse che viviamo, a detta delle autorità incontrastabile e imprevedibile come un sisma, l’eruzione del vulcano, lo tsunami.

Perché la narrazione vigente impone di non contraddire la sua natura di inimmaginabile imponderabilità, malgrado da decenni vari enti profetici l’annuncino come frutto velenoso della globalizzazione, dell’inquinamento, dello sfruttamento delle risorse, dell’antropizzazione, della circolazione facilitata di virus e dell’interazione dell’uomo e dell’animale.

E difatti, scrive Diamanti, “è cresciuta la componente sociale che immagina un futuro senza futuro. Quasi una persona su quattro, infatti, pensa che dovremo trascorrere molti anni insieme al virus….. Nel complesso, 8 italiani su 10 si stanno preparando a una lunga “convivenza” (si fa per dire). Così, mostrano una disponibilità molto ampia verso i metodi e gli strumenti di contrasto e di prevenzione”.

Quali siano è ovvio, e il vaccino, prima di tutto.

Ed è naturale che a esigenze così emotive e irrazionali si dia una soluzione più apotropaica che profilattica, che a pulsioni così viscerali si risponda col “pensiero magico“, con l’elisir, la pozione accreditata come prodigiosa grazie ai sistemi di vendita del prodotto che hanno fatto la fortuna di maghi, vannemarchi, esperti nel far crescere il timore di perdere qualcosa di inestimabile: i capelli, la linea, la salute, con l’illusione, tramite qualche sacrificio, di poterlo conservare o ritrovare.

Malgrado informazioni contraddittorie, qualche procedimento giudiziario, malgrado la censura in azione per tacitare fonti autorevoli arruolate a viva forza tra i no vax, i negazionisti, i barbari, il credo del vaccino ha un seguito tramite l’atto di fede in uno qualsiasi dei prodotti in offerta celebrato da 8 su dieci italiani, secondo Demos. Una percentuale che, secondo Diamanti, coincide con il numero di coloro che “votano” per la sua obbligatorietà per la categorie più esposte, quindi, grazie all’abuso di statistica “unica” come il pensiero di questi tempi, “quasi 6 italiani su 10, cito, considerano l’obbligo vaccinale “per tutti” una soluzione efficace. E circa 8 persone su 10 – le stesse che accettano il vaccino, per sé e/o per figure professionali specifiche – condividono l’utilità del passaporto vaccinale europeo. Un documento che permetterebbe alle persone vaccinate di transitare fra i Paesi europei (e a maggior ragione al loro interno) per lavoro, ma anche per turismo. E per incontrare altre persone”.  

Vaglielo a dire a Diamanti, alla Demos, e a quell’8 su 10, che la durata dell’efficacia “promessa” dalle industrie produttrici vanifica la loro prospettiva di libertà, riducendo l’orizzonte vacanziero di quelli che si sono già conquistati la prima dose, vaglielo a dire che, come hanno dovuto ammettere anche i rappresentanti delle forze dell’ordine addetti alla consulenza sugli obblighi di legge dei Dpcm, anche per i vaccinati restano vigenti le proibizioni e le limitazioni, le mascherine, il distanziamento le simpatiche confezioni apri e chiudi per scuole, musei, palestre, parrucchieri, negozi, vaglielo a dire che l’immunizzazione non risparmia dal rischio di essere contagiati e di contagiare.

E vaglielo a dire che proprio volendo dare fiducia cieca a un preparato che per le summenzionate motivazioni, non vaccina ma semmai potrebbe contrastare gli effetti più gravi della patologia, risultato che da più di un anno di sarebbe ottenuto con efficaci protocolli di cura, esiste comunque un ostacolo alla salvezza oltre che alla libertà.

Si tratta del solito effetto collaterale delle soluzioni di mercato ai problemi provocati dal mercato: la richiesta ha messo in crisi i furbi monopolisti, la merce scarseggia, il prodigio dall’effetto demiurgico viene somministrato in molte geografie seguendo regole arbitrarie e discrezionali, basate sulle stesse disuguaglianze che hanno favorito la diffusione e la mortalità della patologia secondo un andamento di classe più che generazionale, se grandi vecchi, autorevoli vegliardi, babbione televisive ne sono usciti indenni o quasi, magari impiegandolo per evitare udienze e appuntamenti molesti, mentre ha proliferato e prosperato in Rsa e corsie di ospedali pubblici, già interessati da infezioni, quelle a carattere sanitario e quelle provocate dal virus incontrastato delle privatizzazioni.

E figuriamoci se non è pronto il contentino morale, la carota in forma di riconoscimento delle italiche virtù, quelle che hanno permesso di uscire seppur decimati da un ripresentarsi di invasioni barbariche e dal susseguirsi di ventennali dittature di barbari nostrani.

E   figuriamoci se perfino Diamanti non si faceva tentare  dalla più abusata e insensata formula di successo della paccottiglia della comunicazione e del bric à brac delle Pr: “da sempre, gli italiani, scrive, si sono mostrati capaci ….di trasformare i problemi in opportunità”. E come? Ma  affrontando “le sfide del tempo attraverso la loro capacità di adattarsi”.

I Serra, i Diamanti, i sub-intellettuali in forma di lacchè al servizio dell’oligarchia, ben comodi sulle loro poltroncine, ai loro desk agili, predicano le virtù teologali della religione totalitaria: “bisogna avere fiducia. Una parola che evoca la fede”, scrive sul suo house organ l’ottimista osservatore della società, perché “dopo la pandemia, usciremo provati. Ma più forti. Sicuramente (più) felici di stare insieme. Perché dopo la Quaresima, c’è Pasqua. Per noi, se non resurrezione, almeno ripresa”

Eh si, Fede, e Speranza, redento e inamovibile anche grazie alle minacce ricevute.

Quella che latita è la Carità, molto propagandata fino a poco tempo fa in sostituzione della solidarietà e oggi incompatibile con la dignità del capitale umano che finirebbe per essere offeso da ristori e risarcimenti.

Estromessa dalla panoplia di sentimenti concessi, insieme alla pietà, erogabile solo in forma di compianto per i colpiti dal virus e condannata qualora venga elargita dissipatamente verso “essenziali”, che comunque hanno il privilegio di lavorare sia pure senza vaccino, verso sfrattati, verso licenziati, verso precarizzati dal lavoro agile. Come in  tutte le guerre, spesso  non si distingue il nemico mentre si viene sempre a sapere dove colpiscono i danni collaterali.