Nel  1928 Arthur Ponsonby, diplomatico, politico e attivista per la pace britannico, pubblicò il libro Falsehood in War-Time ovvero falsità in guerra in cui documenta la propaganda britannica, francese, tedesca, italiana e americana durante la prima guerra mondiale mettendo in luce alcune tecniche di comunicazione che ancora oggi fanno di quel libro un classico. Molti anni dopo, in questo secolo,  Anne Morelli, docente di critica delle fonti storiche presso l’università di Bruxelles ha ripreso gli scritti di Ponsonby e ne ha distillato i principi della propaganda di guerra in un libro omonimo pubblicato in tedesco per la prima volta nel 2004: Morelli mostra che le tecniche di propaganda  identificate da Ponsonby nel 1928 non hanno perso nulla della loro validità e rilevanza, e vengono ampiamente usate nelle guerre calde e fredde nel 20 ° e all’inizio del 21 °. Il modello Ponsonby-Morelli comprende i seguenti dieci principi della propaganda di guerra:

  1. Non vogliamo una guerra
  2. Il campo nemico è l’unico responsabile della guerra
  3. Il nemico ha tratti demoniaci
  4. Combattiamo per una buona causa e non per fini egoistici
  5. Il nemico commette crudeltà di proposito; con noi è un incidente
  6. Il nemico usa armi illecite
  7. Le nostre perdite sono piccole, ma quelle dell’avversario sono enormi
  8. La nostra causa è sostenuta da artisti e intellettuali
  9. La nostra missione è sacra
  10. Chiunque dubiti della nostra segnalazione è un traditore

Chiunque di noi può facilmente vedere come questi principi di massima calzino come un guanto ai conflitti odierni in atto, Ucraina e Siria  in testa o a quelli in fieri con Russia e Cina e come dunque l’informazione attuale sia in sostanza per gran parte propaganda. Facendo uno studio sul più diffuso quotidiano di un Paese teoricamente neutrale, come la Svizzera, ovvero il  Neue Zürcher Zeitung si vede come i passi favorevoli alla Nato nei due più recenti conflitti siano circa 10 volte più numerosi di quelli critici. Ma dal decalogo Ponsonby-Morelli si deduce anche una meta legge cioè che, la veridicità di un’affermazione è fondamentalmente irrilevante e semmai sarà un problema della storiografia successiva recuperare il senso del vero e del falso. Leggendo i dieci punti si ha anche l’impressione che essi non sono applicati solo nei conflitti in corso nel mondo, ma anche ad altri eventi e più che mai alla pandemia narrativa che ci ha sconvolto: fin da subito per ottenere scopi tutt’altro che sanitari i media e i governi hanno fatto insistentemente ricorso a un linguaggio di tipo bellico: in Italia e in Francia si è evocata la grande guerra, in Inghilterra “l’ora più buia” , in Usa Pearl Harbor e le medesime metafore guerresca sono state utilizzate nel marzo del 2020 da quello che è oggi alla guida del governo italiano, ovvero Mario Draghi.

Le ragioni di questo appello sono abbastanza ovvie: si è voluto lanciare un amo emotivo perché le popolazioni sentissero il dovere morale di ubbidire e sopportare  misure di limitazione alle libertà personali tanto forti, prolungate ed estese a ogni ambito della vita quotidiana, da non avere paragoni se non appunto in uno scenario di guerra e forse ancora peggiori. Ma anche per silenziare ogni critica, anche la più razionale nei confronti di numeri palesemente manipolati e assurde misure che appunto non sono poi servite a nulla:  in sostanza per trasformare il semplice dissenso in tradimento da punire ad ogni costo con la legge marziale stabilita dai social e dai media. Come hanno fatto osservare parecchi critici si tratta di paragoni grossolani e tuttavia tali da proporre una cesura con il passato come appunto durante le due guerre mondiali. La “reductio ad bellum” della narrazione serve anche a rinforzare la coesione tra chi deve diffondere il verbo della paura o distribuire in massa vaccini non sperimentati o sostenere con argomenti privi di qualsiasi senso epidemiologico i confinamenti e le altre restrizioni della libertà presi sulla base di dati falsificati e nemmeno nascosti come per “i nuovi positivi” nel cui conto sono sommati anche i vecchi al fine di chiudere tutto: prima o poi il peso della menzogna e della vacuità, la vergogna per l’inganno potrebbe piegarli e spingerli a rifiutare il ruolo di carnefici quotidiani della verità anche in presenza di una coscienza e di un’etica solo residuale. In questo senso la retorica bellica che si è instaurata serve a mantenere unite e senza sbandamenti le truppe medico – narrative  perché si combatte contro un nemico e in questo contesto la verità è irrilevante rispetto alla vittoria. Che poi come tutte le guerre si tratta alla fine di una questione di potere è qualcosa che ci si illude di poter affrontare in un secondo momento, quando però ci si accorgerà che il nemico non era affatto un virus peraltro piuttosto debole, ma gli stati maggiori della pandemia. E allora si potranno riprendere parecchi punti del decalogo Ponsonby-Morelli e riconoscerne l’inganno: “combattiamo per una buona causa e non per fini egoistici”, “la nostra causa è sostenuta da artisti e intellettuali”, “la nostra missione è sacra”, “chiunque dubiti della nostra segnalazione è un traditore”. Mentre i traditori sono proprio loro. 

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