Pare incredibile, ma dopo anni di massacri avvenuti grazie alle armi americane e alla benedizione di Washington, l’Arabia Saudita ora chiede la pace allo Yemen, visto tra l’altro che il piccole Paese della penisola arabica ha tenuto testa a Riad infliggendo numerose perdite alle sue truppe mercenarie e facendo anche fare una figura barbina alla tecnologia americana. La monarchia saudita afferma di volere “che tutte le armi tacciano completamente”. mentre gli Usa che hanno svolto un ruolo determinate nella guerra e nei relativi massacri di civili , hanno appoggiato l’offerta di pace con le parole del  Segretario di Stato,  Antony Blinken reduce dai disastrosi colloqui con la Cina, il quale ora vanta “il nostro lavoro insieme per porre fine al conflitto in Yemen, facilitare l’accesso umanitario e gli aiuti per il popolo yemenita”. Ma non è il massimo della faccia tosta  perché il vertice è stato toccato dal ministro degli esteri saudita, il quale ha dichiarato pari pari:  “L’iniziativa mira a porre fine alla sofferenza umana del popolo yemenita fraterno e afferma il sostegno del regno agli sforzi per raggiungere una risoluzione politica globale”.

Così dopo sei anni di implacabili bombardamenti aerei sullo Yemen che hanno causato la peggiore crisi umanitaria del mondo, secondo le Nazioni Unite, i sauditi e il loro fornitore militare americano, talvolta intervenuto in prima persona, sembrano aver sviluppato una coscienza. Che sarebbe una buona cosa se non fosse che questo deriva solo e soltanto da una disgustosa forma di ipocrisia: la vera ragione per cercare di porre fine al conflitto è lo stato dell’economia saudita visto che  Saudi Aramco, l’industria statale del gas e del petrolio, ha recentemente annunciato che i suoi profitti sono diminuiti di quasi la metà nel 2020 rispetto all’anno precedente. Un calo da  88 a  49 miliardi di dollari . Dato che l’economia petrolifera fornisce quasi il 90% del bilancio statale, questo è uno gravissimo colpo per le finanze di Riad e potrebbe avere gravi ripercussioni sulla tenuta stessa della dinastia: la pace sociale è infatti garantita da ingenti sussidi statali e con il reddito dell’industria petrolifera in picchiata, si potrebbero rischiare disordini e ricolte  a causa dei necessari tagli draconiani al bilancio. E siccome certe dinamiche non sono prevedibili c’è il rischio che l’elemento chiave della politica americana in medio oriente e non solo finisca per crollare. Bisogna pensare che il primo grande sciopero nel Paese, probabilmente dall’epoca dei Sumeri, si è avuto nel settembre 2019, quando i droni Houthi hanno colpito l’enorme complesso della raffineria di Abqaiq. Ciò ha causato la chiusura temporanea di metà della produzione di petrolio saudita e ha spaventato anche il mercato azionario. 

D’altro canto nonostante l’immensa disparità di mezzi i ribelli yemeniti stanno intensificando gli attacchi aerei contro le installazioni di Aramco nei suoi quartieri generali a Dhahran e Dammam nella provincia orientale, così come nelle città di Abha, Azir, Jazan e Ras Tanura. I sauditi affermano di aver intercettato molti missili con sistemi di difesa Patriot di fabbricazione statunitense. ma se ne può facilmente dubitare visto che i ribelli non hanno poi tanti missili e droni e hanno inflitto danni gravissimi sia alle strutture che alla fiducia degli investitori quasi a colpo sicuro. Del resto i patriot sono ormai una delle più vetuste realizzazione di unìindustria militare in declino. E così il presidente Biden è costretto a fare marcia indietro su una guerra a cui lui stesso ha dato la benedizione di Washington nel 2015 quando era  vicepresidente del nobel per la pace Obama. Adesso questo guerrafondaio rimbambito o meglio chi per lui tenterà di separare le responsabilità da quelle dei sauditi sebbene i bombardamenti sui depositi di cibo e il blocco del Paese non potessero essere realizzati senza l’essenziale logistica americana. Dopo tante stragi di civili Riad cerca di sottrarsi ad una guerra che sta perdendo e gli Usa tentano di lavarsi le mani dal sangue che gronda.