Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ieri testate che ogni giorno ci invitano a gustare le dolci delizie della resa incondizionata, che ogni giorno ci illustrano le virtù dell’obbedienza, che magnificano le restrizioni di libertà e la riduzione dei diritti alla sola tutela della salute, che raccomandano il ricorso a trattamenti obbligatori in nome di una responsabilità che  persuade a sacrifici soprattutto del libero arbitrio ma anche del buonsenso in cambio di licenze e autorizzazioni a andare al ristorante o viaggiare nel virtuoso Occidente, hanno celebrato, o meglio, commemorato, il 18 marzo di 150 anni fa.  

150 anni fa, quando cioè Parigi insorse proclamando la Comune, scegliendo come proprio simbolo la bandiera rossa, che sventolava sull’Hote de La Ville, sciogliendo l’esercito permanente e armando i civili, instaurando  l’istruzione laica e gratuita, stabilendo l’eleggibilità di magistrati e funzionari pubblici, stabilendo la parità salariale per i “burocrati” e per i componenti del suo Consiglio con quelli degli operai, riconoscendo lo status istituzionale delle associazioni dei lavoratori e avviando l’epurazione del ceto politico, amministrativo  e religioso  fedele  al Governo Thiers, costretto a riparare a Versailles, che aveva fatto ricadere sul popolo l’amaro prezzo della guerra franco-prussiana con oltre 3500 morti, carestia, fame, stenti e l’umiliazione dell’assoggettamento alle condizioni dettate dalla Prussia e subite dai cittadini.

Al popolo della Comune non bastava abbattere il dominio della classe egemone, voleva estinguere il dominio di classe, riaccendendo la luce delle stelle polari Libertà, Fraternità, Uguaglianza, comprendendo che era “loro imperioso dovere e loro diritto assoluto di rendersi padroni dei loro destini, impossessandosi del potere governativo”.  

Il popolo della Comune aveva deciso che la sfera sociale doveva prevalere su quella politica e che quest’ultima non sarebbe mai più stata una funzione specializzata e “professionale”, poiché sarebbe stata progressivamente assorbita dalle attività della società civile. Attuò  provvedimenti a tutela dei soggetti più vulnerabili nella società, deliberando la fine della discriminazione tra figli legittimi e illegittimi,  e nella famiglia. Stabilì regole severe per impedire forme feroci di sfruttamento, con interventi sull’orario e condizioni di lavoro. Impose criteri rigidi per l’approvvigionamento delle derrate alimentari in modo da calmierare i prezzi. Aveva stabilito che le  scadenze dei troppi indebitati  venissero procrastinate, sospesi gli sfratti e le abitazioni disabitate requisite e concesse ai senzatetto. Aveva fissato un minimo salariale, sancita l’interdizione al cumulo di più lavori per cancellare conflitti di interesse. E poi collettivizzò i teatri, dati in gestione alla “federazione degli Artisti di Parigi”, proprio come determinò che i laboratori e le fabbriche chiuse dopo la fuga dei padroni che avevano lasciato al città, venissero affidate ai lavoratori stessi riuniti in cooperative.   

Ci sono tanti modi di estinguere la potenza demiurgica della storia. Uno dei più disonorevoli consiste nell’annientare la sua vocazione pedagogica e il suo contenuto profetico: succede quando le evidenti relazioni e affinità con il presente disturbano la narrazione corrente, quando potrebbero suscitare un’indole sopita da anni in nome del ripresentarsi di stati di necessità che invocano abdicazione, censura, conformismo come doverose virtù della cittadinanza.

Così come quando Macron festeggia la presa della Bastiglia il 14 luglio ieri si è visto inanellare il repertorio epico e romantico, con tanto di sostegno narrativo tratto dai testimoni del tempo con preferenza per quei focosi tromboni che descrissero gli eventi tra i broccati e le boiserie dei loro salotti, con le orecchie tappate per sentire gli spari, proprio come i giornalisti di guerra che ci informano dall’hotel, rispetto al vero cantore della Comune, che per quella militanza sotto il gran sole carico d’amore fu automaticamente catalogato tra i “maledetti”, o tra le “anime folli”, secondo Hugo, da preferire quando sono morte o dimenticate, come Louise Michel.

Eh si, meglio retrocederlo a ispirazione letteraria, a immaginetta votiva di un sogno perduto, che restituire la potenza dell’esempio di qualcosa che potremmo conquistare e ripetere, meglio collocarla nel filone dei gloriosi, ma sterili fallimenti, che è preferibile affidare alla ormai corposa narrativa dell’eutanasia della sinistra, vedi mai che a qualcuno non venga in mente di prenderne spunto per una analisi dell’oggi e una possibile previsione del domani.

Meglio non svegliare nessuno dalla narcosi che impedisce di vedere la veridicità di certi presupposti. Giustamente, nel rivendicare la sua straordinarietà, la sua forza di rottura, Angelo d’Orsi, fuori dall’imbalsamazione ecumenica, sottolinea come “sovente la guerra, come atto tipico del capitalismo imperialista”, possa essere “all’origine della rivoluzione: la guerra che produce sconfitta”, e sconfitta che induce ribellione per la dignità offesa e per gli stenti imposti come sacrificio e punizione per essere stati battuti, e rivolta contro la rivelata miseria criminale di   ceti dirigenti che dichiarano stati di fame e repressione per nascondere la loro pochezza.  

Accadde nel 1905, dopo la sconfitta della Russia zarista da parte del Giappone, scrive d’Orsi, …dopo le sconfitte dell’esercito italiano nella Seconda Guerra mondiale, e il generale disastro militare… cause fondamentale della caduta di Mussolini nel luglio del ’43”. E come non ricordare Weimar, che si può mettere nel conto dei fallimenti del riformismo strutturale? Tutte esperienze di Stato del popolo, di ordine nuovo creato da un blocco sociale che non ha paura di misurarsi con l’utopia.

Evidentemente si tratta di una paura che non conosciamo più, posseduti da ben altri terrori apocalittici o mediocri, quello della peste  o della perdita di privilegi, quello della perdita del lavoro, o della pizza al sabato sera, quello che impone la rinuncia ai diritti o quello che convince della opportunità di non conoscere, di non interrogarsi, pena l’anatema riservato non solo ai disobbedienti e agli eretici ma anche a chi vorrebbe pensare “altro”, immaginare un bene possibile al posto del male minore, che comporta l’ostracismo dei negazionisti della speranza.

Siamo stati condannati a provare vergogna come fosse un disonore intellettuale, culturale e morale, se indulgiamo a pensare che esista nell’ambito del fattibile, diventare protagonisti di un rovesciamento del tavolo, diventato ormai quello della roulette dove il casinò  vince sempre per via delle carte truccate, rischiare grazie al coraggio della disperazione ma anche all’audacia della coscienza di sé, che non teme la verità e la responsabilità della difesa dei propri diritti.

Quando a guidare il proprio riscatto non  è un leader, ma la diffusa consapevolezza di avere dato vita a un’impresa comune di liberazione e di felicità.