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Cottarelli & Schlein, cattivi partiti

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Buone notizia dagli accampamenti del Grande Reset. Si sono aggiunte due falangi macedoni affini per obiettivi, ma che si differenziano per gli stili della comunicazione, l’uno epico, l’altro lirico, l’uno pragmatico, l’altro passionale.

Tutti e due i piccoli eserciti costituiti da alti gradi e ancora più alti profili, in attesa di trovare qualche mercenario a occuparsi delle intendenze, daranno il loro contributo al governo più dichiaratamente postdemocratico d’Europa, animati da una personale interpretazione della distruzione creativa, caposaldo del pensiero dell’automa incappucciato che occupa Palazzo Chigi.

I loro leader infatti devono togliersi dei gran sassi dalle scarpe, a dimostrazione che le frustrazioni possono guidare verso sbocchi costruttivi e pragmatici.

L’uno, avvilito del gran rifiuto quando nel 2008 salì invano al Quirinale chiamato da Mattarella per tentare un governo tecnico e risentito per non essere stato oggi promosso a generale, preferendogli come ghostwriter e consigliori Giavazzi, mette a disposizione della “critica costruttiva” dell’esecutivo metà bestia metà uomo, metà tecnici metà politici, comunque senza testa,  non un partito o un movimento, bensì, è questa la novità, un Comitato Scientifico  pronto a prodigarsi per “elaborare proposte per risanare il nostro paese, la sua economia e il suo tessuto sociale, mantenendo un saldo ancoraggio europeo ed atlantico e coinvolgendo soprattutto personalità indipendenti del mondo della cultura, dell’economia, delle professioni, del lavoro, dell’imprenditoria, del volontariato e della politica”.

L’altra indirizza  la sua audace animosità per concorrere all’eutanasia del Pd colpevole di non averla valorizzata, nemmeno quando in anticipo sulle sardine occupò simbolicamente le sue sedi, con la stessa coraggiosa sfrontatezza che dedica al sostegno alla pretesa autonomistica del suo presidente, condivisa con due regioni secessioniste in forza alla Lega, per realizzare invece l’unità compatta intorno ai “principi ecologisti e progressisti”.

Lei, Elly Schlein, chiama la sua “utopia” anticipata ampiamente dalle pubblicazioni di Gedi con tanto di copertina dedicata al  leader declinato al femminile, dell’anno, la Cosa Rossa e la definisce una iniziativa “pirata”, rischiando una denuncia per abuso da chi si ostina a coniugare quel colore coi vessilli della lotta di classe, e pure dai marinai della gloriosa filibusta che di sicuro non si riconoscono nei loro discendenti attivi in istituzioni e imprese.

Lui, Carlo Cottarelli ha già inaugurato in veste, sic, di direttore! il suo Comitato che si chiama “Programma per l’Italia” insieme a Emma Bonino, Carlo Calenda, Alessandra Lanza, Silvia Enrico, Oscar Giannino, Edoardo Croci e Corrado de Rinaldis Saponaro.

Ma nelle retrovie pulsano vibranti di energia i cuori di Sara Biglieri, Rosamaria Bitetti, Michele Bugliesi, Carlo Alberto Carnevale Maffè, Giuliano Cazzola, Alessandro De Nicola, Mirko degli Esposti, Franco Debenedetti, Silvia Enrico, Giampaolo Galli, Riccardo Gallo, Fabio Garaventa, Oscar Giannino, Giovanni Gilli, Michele Governatori, Alessandra Lanza, Andrea Mazziotti, Enrico Musso, Giulia Pastorella, Alberto Pera, Bepi Pezzulli, Barbara Pontecorvo, Carlo Scognamiglio, Simona Viola, tutti insieme per dimostrare grazie alla concorde stesura di un programma del centro liberaldemocratico, che “la politica non smette di pensare” perchè “non finisca tutto con il governo Draghi, pur auspicato e sostenuto”, che rischia di addormentare confronto e iniziativa con un eccesso di leaderismo personalistico.  

I “valori” merceologici di Programma per l’Italia, consistono, cito da una intervista a Repubblica, nella “fede nella democrazia parlamentare”, ormai obsoleta, accidenti, proprio adesso che sono state cancellate le elezioni e gli altri appuntamenti della democrazia; nel forte “ancoraggio europeo e atlantico”; nell’ “uguaglianza di possibilità”, un aggiustamento in chiave pop delle pari opportunità, “che è cardine della nostra Costituzione”; nel “merito”, che non deve mai mancare dalla panoplia di figure retoriche dei vari mani di forbice che hanno insinuato il dubbio in tanti che solo per via di nascita e affiliazione ci si possa meritare successo, beni e privilegi, nella “solidarietà, senza cadere nell’assistenzialismo” quello del reddito di cittadinanza ma probabilmente anche di salari dignitosi.

Il fatto è che resta poco da dire e da fare ai competenti in vista die loro leggendari fallimenti, oltre alla paccottiglia degli stereotipi hitech e della tecnocrazia convertita in pasticciocrazia, se perfino Colao che deve vendere i suoi prodotti ammette che la rivoluzione digitale non si può fare in un Paese dove i lavoratori in smartworking si devono comprare il modem e pagarsi l’abbonamento a Tim.

Così ha il sapore agrodolce del velleitarismo la pretesa di accreditarsi e collocarsi nei ruoli alti della decisione degli arnesi impolverati, che hanno tentato in qualità di aristocrazia manageriale di concorrere da questa remota provincia  ai processi di concentrazione del potere decisionale e di governamentalità algoritmicadell’élite che detiene la governance internazionale, grazie al contributo non richiesto di Agende, programmi, report redatti in sterile e inane competizione con le varie McKinsey.

C’è poco da rallegrarsi,  lo stesso bric à brac, le stesse cianfusaglie fanno parte della cassetta degli attrezzi della weltanschauung di Schlein, appena un po’ addomesticate dal progressismo riformista   che li ricompone nella merce sottovuoto di un idealismo confuso e funzionale all’establishment, capace di esprimere concetti accettabili a condizione che restino in superficie, l’ecologia della green economy che confida in soluzioni di mercato per i crimini commessi dal mercato, l’antifascismo senza resistenza e ormai senza fascisti se gli unici riconosciuti sono al governo, pietà e carità tramite Ong in sostituzione della solidarietà e della coesione sociale, accoglienza e integrazione senza condanna dell’imperialismo se è firmato Biden.

E poi a unire i due blocchetti asociali si sono i comuni denominatori del rimpianto per i trent’anni del capitalismo italiano, in cui il compromesso sociale fra capitale e lavoro aveva narcotizzato il conflitto, grazie alla droga esilarante e  stabilizzatrice del boom e del consumismo, dell’accettazione dell’austerità come prova di responsabilità di una collettività disposta a pagare il conto dei un passato dissipato tramite sacrificio e rinunce, rese moralmente più accettabili in via sanitaria.

E soprattutto l’anatema condiviso nei confronti del sovranismo, professato con il reiterato atto di fede nei confronti di una entità sovranazionale che pretende di riassumere poteri egemonici e dominio totale  e incontrastato (una sovrastruttura semi-statuale che sta realizzando da 30 anni, a colpi di trattati comunitari e “raccomandazioni” sempre più ultimative un trasferimento di poteri politici dagli Stati nazionali alla struttura con sede a Bruxelles (o a Francoforte) e nei confronti del populismo, privato dei soggetti politici che virtualmente ne traducono le istanze in atti ormai annessi e ammessi alla stanza dei bottoncini.

Così con la demolizione definitiva dell’edificio democratico, un risultato però si è raggiunto: a chi concorre a un posto anche in seconda fila nel teatrino del potere non fa schifo il populismo, macchè, fa proprio schifo il popolo.  

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