Anna Lombroso per il Simplicissimus

Gli house organ della Gedi hanno titolato in questi giorni:  “Imprenditore cerca personale, ma nessuno vuole perdere il reddito di cittadinanza”, in anticipo sull’angustia dei proprietari di stabilimenti e dei gestori di locali che ogni anno esibiscono i cartelli della ricerca di stagionali, e in ritardo sul presidente dell’Emilia Romagna e sull’ex ministra ex bracciante, ambedue in prima fila nel proporre  la precettazione dei giovani parassiti e la loro edificante promozione a lavoratori socialmente utili a titolo gratuito.

In realtà si è appreso che all’azienda occorrevano due tecnici informatici, che l’attività di scouting aveva selezionato alcuni aspiranti, ma che la loro offerta è stata respinta per via della inusitata pretesa degli sfrontati appartenenti alla società signorile di massa: una remunerazione addirittura doppia rispetto al sussidio,  che come è noto ammonta a circa 500 euro.

Con l’avvento del profeta della religione del capitale umano  si riscrive senza vergogna l’impenitente letteratura dei devoti del sacrificio, obbligatorio per tutti quelli che non siano figli  e nipoti dei membri della congregazione e destinati, per legge naturale, dopo Erasmus e master prestigiosi, a seguire le orme dinastiche in qualche Cd’A, in qualche autorevole studio con targhetta già pronta sulla porta, in qualche banca internazionale in modo da non mescolarsi con la vecchia guardia dei babbi etruschi dei quali è meglio rimuovere la memoria disonorevole. 

Gli argomenti fastidiosamente monotoni sono sempre gli stessi: vanno da quelli di carattere etico con il richiamo al dovere della mortificazione di talento, vocazione e dignità cui è imperativo rinunciare per accumulare i punti fedeltà, a quelli propri della cultura del marketing che consigliano l’assoggettamento come requisito per diventare da desiderabili a indispensabili.

Insomma il lavoro c’è, come ci ha informato Business Insider sempre di GeDi qualche tempo fa rendendo noti i dati del rapporto Excelsior secondo il quale  ci sarebbero almeno 90mila posti vacanti,  in attesa che le aziende riescano a trovare personale qualificato  e determinato a piazzarsi e fare carriera nei settori trainanti: Digital, web, e-commerce, logistica, farmaceutica e delivery, in quello alimentare e della grande distribuzione, nell’energetico e nell’elettronica di consumo e connessioni veloci, senza dimenticare il mondo bancario (ne ho scritto qui: https://ilsimplicissimus2.com/2021/02/20/la-tratta-dei-bancari/  ), quello del private equity, quello dei fondi e quello degli investimenti.

Si, i posti ci sono ma bisogna saperseli conquistare, come consiglia la pedagogia degli  esperti dell’Outplacement, la scienza della collocazione e ricollocazione dei lavoratori nel mercato: uno deve  capire quali siano le proprie competenze  spendibili in settori diversi, individuare le proprie abilità e inclinazioni, mapparle e  formarle per metterle a frutto.

Si tratterebbe insomma di investire sul proprio giacimento personale, senza attribuire troppa importanza a una retribuzione adeguata alla posizione cui sia aspira,  accettando un salario che via via si è abbassato rispetto all’andamento del costo della vita, dei servizi, e che dà  luogo al fenomeno che i sociologi chiamano dei working poor, lavoratori che percepiscono uno stipendio insufficiente a affrancarsi dall’indigenza e che  colpisce ormai più del 12% degli occupati o sottooccupati maggiorenni.

E siccome tutte le infamie vengono meglio se le si definiscono in inglese, il vero problema  sarebbe quello che si chiama  “skill mismatch” e che consiste nel “disallineamento tra le discipline di studio scelte dai giovani e le esigenze del mercato del lavoro, fenomeno confermato  da studi e indagini, uno dei quali,  condotto da JpMorgan e Bocconi,  colloca l’Italia al terzo posto al mondo tra i Paese colpiti da quella che il Sole 24Ore  denuncia come una delle “maledizioni italiane”, o da una rilevazione  di Anpal e Unioncamere  che ha rivelato come il 31% delle aziende riscontri «difficoltà di reperimento» per 1,2 milioni di contratti programmati nei primi tre mesi del 2020.

Secondo i ricercatori della Bocconi, questa situazione sarebbe legata a un’ informazione inadeguata sugli esiti lavorativi e retributivi delle diverse facoltà, che porta inevitabilmente a unascelta basata sulle sole preferenze individuali.  E che è aggravata dal contrasto tra due offerte, una sotto-qualificata: l’Italia ha  la più bassa percentuale di laureati in Europa,  e  una super-qualificata rappresentata dai  laureati in discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche, dotati di uno standard di preparazione che non è richiesto dal nostro sistema produttivo in perenne ritardo strutturale e da un tessuto di imprese di medie e piccole dimensioni che non possono permettersi personale con elevate competenze  e altrettante elevate aspirazioni di carriera e remunerazione.

Ci sono fior di organismi impegnati a esplorare il fenomeno  che hanno denunciato come lo skill mismatch interessi in tutto il mondo 1,3 miliardi di persone, un numero destinato a  aumentare, visto che entro il 2030 arriverà  a 1,4 miliardi, incrementato dalla previsione che in pochi anni serviranno  professioni che oggi neppure esistono, altre diventeranno praticamente inutili e che nessun tipo di formazione sembra in grado di poter colmare questo vuoto. E se  molti lavoratori non possiedono le competenze richieste dalle aziende, ammonisce il Sole 24Ore, ecco perché molto spesso le imprese faticano a trovare personale e finisco per rassegnarsi ad “assumere persone troppo o troppo poco qualificate: entrambe soluzioni inefficienti, che bloccano i dipendenti e le aziende nella cosiddetta ‘qualification trap’”.

C’era da aspettarselo, se siete disoccupati la colpa non è del governo ladro, del sistema, del padronato avido che vuol fare il mestiere di Michelaccio contando i dividendi, macchè, la colpa è solo vostra e delle vostre famiglie che vi hanno pagato un percorso di studi non congruo alle richieste del mondo del lavoro, come probabile riscatto per le loro frustrazioni di condannati a una catena sgradita e per aver sacrificato una  vocazione al mito del posto sicuro.

Deve proprio essere uno degli effetti collaterali del ’68 e del ’77 se i padri di famiglia in eskimo e le mamme contagiate dalle streghe in scialle e zoccoli hanno messo nel cassetto la realpolitik domestica, consegnando i discendenti, figli e nipoti, a un destino creativo e talentuoso di precari marginali, invece di costringerli a frequentare la Bocconi e la Luiss e a parcheggiarsi in master de luxe erodendo i fondamenti sani lodati da tutti i Presidenti del Consiglio, in attesa di uno “sbocco” adeguato.

Deve essere una ricaduta fisiologica del trionfo della lotta di classe alla rovescia se queste aziende smaniose di fare irruzione sulla scena della rivoluzione digitale non investono in innovazione, fanno pagare ai dipendenti in smartworking il costo del modem, non ritengono produttivo aumentare   i salari in quei settori in cui  pesa di più la scarsità di offerta.

Deve essere una conseguenza della volontà di demolire dalle fondamenta l’edificio democratico se  il processo di svalutazione delle università pubbliche nelle quali non si è scommesso un soldo nemmeno ai fini di convertirle in diplomifici per una classe di specialisti del nulla, andava di pari passo con la valorizzazione delle “accademie” private destinate a formare alla sopraffazione avida e stupida il nuovo ceto oligarchico.

Sono quelle le “fabbrica di Capitale Umano” attrezzate per investire su poche nullità feroci che appena usciti dalle università e entrati nelle filiere del comando,  riproducano modernamente i soprusi del dominio medievale.