Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ve l’ immaginate la reazione di  Di Vittorio, che non è il soggetto di una soap, quando, leggendo  il resoconto del “trombettiere” dell’Unità  in servizio al Senato, scopre  che il presidente incaricato ha definito il popolo e i lavoratori “capitale umano da promuovere”?

Ecco, e invece adesso immaginatevi Landini che ritiene naturale questa concessione all’idioma del progresso e che si compiace del “”discorso programmatico di alto profilo, quello del presidente del Consiglio, Mario Draghi, con una netta collocazione europea dell`Italia per costruire un’Europa nuova e socialmente sostenibile“, offrendo la sua disponibilità per la realizzazione di grandi obiettivi che richiedono  “il consenso e il coinvolgimento del mondo del lavoro e della cittadinanza attiva. Per questo è necessario subito un pieno coinvolgimento delle parti sociali e un chiaro ruolo d`intervento e d’indirizzo pubblico delle politiche industriali e di sviluppo”.

Non c’è più Di Vittorio, non c’è più l’Unità e anche la Cgil non sta tanto bene se il suo segretario ha scorso il Bignami della lectio magistralis del banchiere, senza soffermarsi sulla strumentazione prevista da anni e a base di distruzione creativa, al servizio della selezione naturale dei “produttivi” in modo da perseguire quella soluzione finale grazie alla quale quell’Europa nuova sul cartamodello delle cancellerie, che concede ai Paesi del blocco centrale l’esclusiva  di sfruttare la forza lavoro qualificata e a basso costo dei Paesi del Sud e dell’Est europei, declassandole a mercati di sbocco e bacini da “valorizzare”, esautorati e espropriati di  risorse e capacità competitive.

Così come non c’era da aspettarsi niente di meglio dal mammasantissima del sistema bancario-finanziario, non sorprende la resa incondizionata di sindacati che via via si sono acconciati a diventare organi di magnanima consultazione, che in vista della progressiva perdita di autorevolezza in qualità di negoziatori di garanzie hanno scelta la più redditizia attività di agenti e promoter di fondi  e polizze sanitarie e previdenziali nel quadro del Welfare aziendale, perlopiù in capo alle stesse imprese e multinazionali che hanno l’opportunità di beneficiare due volte del contributo a un tempo di dipendenti e assicurati.

Nell’efficiente succedersi di stati di eccezione  suscitati dalla Necessità prima e dalla pandemia poi, trattata da emergenza sanitaria per nascondere la sua natura di crisi sociale indotta da privatizzazioni selvagge, austerità applicata al sistema assistenziale e sanitario, effetti della riduzione del potere d’acquisto che ha investito anche la prevenzione e le cure di patologie, i sindacati sono venuti meno al loro mandato piegandosi ai diktat della “realistica” mancanza di una alternativa praticabile al dominio economico e finanziario, inseguendo solo  i particolarismi corporativi grazie ai  quali si è prodotta la frammentazione delle classi subalterne fino alla competitività più feroce favorita   dall’innovazione tecnologica, della legislazione  del lavoro, da “riforme” intese al ritorno di vecchi strumenti aggiornati e svincolati da ogni tutela, cottimo, caporalato, part time, volontariato, avvicendamento scuole, formazione e lavoro.

Da anni, ai pistolotti del Primo Maggio in piazza con rappresentanze confindustriali, non segue nessuna azioni che riproponga il nodo irrisolto della rivendicazione salariale, come si trattasse di una battaglia arcaica e superata. Mentre  invece verte su una Ingiustizia che la modernità ha aggravato, se oggi in Italia si guadagna meno di trent’anni fa, a parità di professione, di livello di istruzione, di carriera  e se la trasformazione del lavoro e dei modi di organizzazione, la mobilità e la precarizzazione scatenati  dagli “spiriti animali” dell’accumulazione, sono andati  di pari passo con i processi di ristrutturazione, con il degrado del sistema produttivo nazionale, con il trasferimento di risorse riversate  nei settori a più basso valore aggiunto e in particolare nei servizi.

Così la deregolazione del mercato del lavoro, l’illegittimità di misure adottate come necessaria concessione alla libera iniziativa, perfino le delocalizzazioni vengono rivendicate come un’esigenza vitale per la sopravvivenza delle imprese, così come la compressione dei salari, le restrizioni imposte ai diritti dei lavoratori e la demolizione delle protezioni sociali conquistate in decenni di lotta vengono rivendicate come requisiti irrinunciabili a garanzia della  competitività e indicate come rinuncia necessaria in nome di sviluppo e “benessere”.  

E ci ritroviamo con il segretario della Cgil in estasi per essere stato ricevuto dal PapaRe che gli ha offerto così l’occasione di ribadire al priorità dello ius soli – sul quale concordiamo, certo, riconfermando l’opportunità che i diritti di cittadinanza vengano garantiti anche ai nativi da più generazioni –   concorde con il presidente del G30, con il cane da guardia dell’Ue, con il dinamico piazzista di strumenti creativi di Goldman & Sachs, con il firmatario della condanna al fiscal compact e all’assoggettamento ai comandi impartiti via lettera, sul quadro di “riforme (ammortizzatori sociali, fisco, pubblica amministrazione, giustizia) e sugli investimenti, capaci di creare nuovo lavoro in particolare per i giovani e le donne”, raccomandati dall’Europa.

E, dunque, inevitabili, tra la revisione della pubblica amministrazione, le privatizzazioni su larga scala e la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali; la riduzione del costo dei dipendenti pubblici, se necessario anche attraverso la riduzione dei salari;  la riforma del sistema di contrattazione collettiva nazionale; le opportune riforme costituzionali, temi oggi rivisitati dopo il passaggio per Rimini, le colonne del Financial Times, la nuova intesa raggiunta con la nomenclatura partitica e movimentista nazionale.

D’altra parte basta ricordare come un anno fa Landini esultava   per il taglio del cuneo fiscale, accolto come una conquista “perché dopo tanti anni c’è un provvedimento che aumenta il salario netto di una parte dei lavoratori dipendenti”, omettendo  sulla possibilità che costituisca un taglio al salario differito dei lavoratori o che corrisponda  a un aumento del costo dei servizi, a cominciare da quelli sanitari e assistenziali.  

La mascherina opportunamente collocata sulla bocca aveva impedito ai sindacati in questo anno di pronunciarsi quando i lavoratori di quelle che stavano diventando le zone rosse proclamarono scioperi e indissero manifestazioni, prontamente represse, per chiedere misure di sicurezza congrue alla proclamata gravità dell’epidemia che aveva provocato la divisione dei cittadini in produttivi abilitati a tutelare la salute tra le pareti domestiche e essenziali, costretti in questa veste a prodigarsi in posti di lavoro, fabbriche, uffici-pochi- supermercati, magazzini, industrie belliche da raggiungere sugli abituali carri bestiame.  O quando il Governo con l’assenso della triplice ha acconsentito a un protocollo che stabiliva la estemporaneità di requisiti di sicurezza a fronte della immunità padronale in caso di contagi, in modo che restasse invariata la contabilità delle usuali morti bianche,  per poi scrivere i suoi Dpcm sotto dettatura dei tandem Regioni-Confindustria.

Proprio la stessa riservatezza così cara ai tecnici deve aver caratterizzato il sobrio consenso dato all’esaltazione del lavoro agile, prova generale della rivoluzione digitale che renderà generalizzato il ricorso allo smartworking e  a quello che ne consegue: proliferazione di contratti anomali, riduzione delle remunerazioni e incremento della disponibilità h24, aumento delle possibilità di controllo e invasione degli spazi privati, primato del part time offerto alle donne come generoso accorgimento per conciliare lavoro esterno e prestazioni domestiche, tutti obiettivi indirizzati all’obiettivo di rompere eventuali fronti comuni, a ridurre la consapevolezza dello sfruttamento, isolando i soggetti condannati a un solipsismo sterile.

La narrazione apocalittica è stata accettata dunque e accolta come il sigillo definitivo all’azione di testimonianza e rappresentanza, diventata incompatibile con l’adesione al Progresso, esige la rinuncia, obbliga al sacrificio tramite opportune riforme, come se in questi ultimi venticinque anni non  ne avessimo subite abbastanza , dal “Pacchetto Treu” alla Legge 30/2003, dalle leggi e leggine di Sacconi, alla Fornero, al “Jobs Act” in modo che il lavoro non fosse mai abbastanza flessibile, mobile, agile, smart, tanto per piacere a chi le pensa, le detta, le impone e le applica contro di noi.