Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ieri e l’altro ieri l’elaborazione del lutto per l’uscita di scena dell’avvocato Conte si è concretizzata nell’ostensione sui social e in rete della cerimonia degli addii officiata del personale plaudente che si sporge dalle finestre del Palazzo. E poi lui, tornato semplice uomo della strada, che anticipa San Valentino allontanandosi per mano con la sua fidanzatina proprio come in un disegno di Peynet o nel finale di Tempi moderni.

È strana la nostra modernità intenta a riscoprire tutta la paccottiglia retorica delle sardine benpensanti restituendole  un valore morale, politico e civile, che poi a ben guardare è quello dell’ipocrisia che permette comodamente di credere a tutto, di rimuovere tutto, grazie alla costruzione di una falsa coscienza. La stessa  che ha attribuito a un presidente del Consiglio il ruolo di baluardo contro il fascismo reincarnato in quello che era stato suo influentissimo alleato, e del quale aveva firmato i provvedimenti infami. O grazie alla fiducia sempre rinnovata nella più alta carica che promette solennemente agli italiani un governo finalmente libero  dalle influenze e dalle pressioni partitiche e poi mette il suo sigillo alla  squallida formazione in campo di attrezzi  estratti dall’incubo berlusconiano.

Così nessuno nel teatrino dei buoni sentimenti ha ritenuto che fosse prima di tutto criticabile il tableau vivant del “compianto”  animato dalle  risorse umane di Palazzo Chigi, peraltro beneficate da alcuni provvidenziali arrotondamenti e aumenti a firma di Conte, dalle quali sarebbe legittimo aspettarsi un comportamento più consono agli usi istituzionali che ai riti della società dello spettacolo che aveva fatto irruzione nelle aule grigie grazie al dinamico comunicatore del Presidente, cui, c’è da immaginare dobbiamo le riprese in tempo reale della liturgia. Che poi tanto singolare non è: per gli amanti del genere basta andare su Youtube per godersi analogo spettacolo, sia pure in tono minore, riservato a  Prodi, D’Alema, Letta, Gentiloni e perfino a Berlusconi.

Ma stavolta l’audience è stata molto superiore, come hanno tenuto a farci sapere non solo i/le vedove/i dell’ex presidente, ma anche le penne intinte nel rosolio di alcuni commentatori e tra i tanti anche di qualche pensatrice che vanta un trascorso femminista. E che, anche loro, interpretano il flash mob dei funzionari della Presidenza come l’espressione di un sentiment popolarema non populista, per carità! -, di una emotività calda e domestica, ma appassionata, di una commozione condivisa che fa da controcanto all’algido ermetismo del tecnico bancario. Sicché sarebbe toccato a funzionari strapagati, burocrati privilegiati, dipendenti viziati e vezzeggiati  incarnare quei sensi e quelle espressioni dell’anima che fanno della tenerezza e della compassione i modi e i moti più belli e alti dell’umanità.

E mica basta, addirittura, si legge a firma di Ida Dominjianni, passata senza grandi evoluzioni dal Manifesto a Domani,  costituirebbe, quella manifestazione degli impiegati del palazzo,  “una spontanea smentita dell’inchino viscido al fascino discreto del nuovo potere che pervade tutti i mezzi d’informazione, segno che fra i sentimenti e i pensieri delle persone comuni e quelli veicolati da tv e giornali c’è – per fortuna – un abisso”.

Per quello, forse, stanotte ho sognato la ribellione dei Travet, lo sciopero bianco dei fantozzi che corrono per i corridoi e si affaccendano allo scopo umanitario di sveltire pratiche e accelerare procedure, ho immaginato il dinamismo operoso di mezzemaniche che si mettono al servizio dei postulanti e  perfino la ribellione silenziosa ma tenace volta a ostacolare le inique misure alla greca attese dalla nuova gestione e dal profeta dei tornelli.

Non c’era da aver paura dunque solo delle cattive letture che avevano accreditato un “pensare” femminista sconfinato nel  neoliberismo, quello che al posto del riscatto e della liberazione prospettava la sostituzione meccanica di maschi carogne con femmine più carogne ancora, dando spazio alle ambizioni e all’affermazione di una scrematura di genere che prometteva a chi godeva delle prerogative e dei  privilegi di nascita, rendita, affiliazione il successo, rompendo il soffitto di cristallo per prendersi un po’ più cielo degli uomini grazie all’integrazione e allo sviluppo dei caratteri della sopraffazione e del cinismo.  

Macché, grazie alla persuasione morale esercitata per convincerci della necessità del sacrificio di diritti, dell’opportunità della rinuncia a pensare che altro sia possibile e della condanna di passioni critiche, antagoniste a cominciare dalla collera, adesso c’è da preoccuparsi per il recupero di Alcott e di  Austen, impiegate per far conciliare ragione e sentimento, mettere a tacere l’orgoglio insieme alla dignità e dare rinnovato valore a qualche sano pregiudizio.

Perché senza tanto girarci intorno sono stati definitivamente sdoganati i preconcetti di genere più scontati, quelli che in nome della doverosa esaltazione di qualità in quota rosa, capacità di ascolto, messa a frutto del giacimento di esperienze e affettività costituito dall’essere madri, peculiare e genetica predisposizione alla coesione e dunque assunzione del ruolo guida connaturato per  l’inclusione nella politica governativa di valori “personali”, emozioni e delicate trepidazioni femminee, pare che l’unica obiezione ragionevolmente sollevata nei confronti del governo guidato dall’apostolo della distruzione creativa sia la rimozione della quota rosa in forza al Pd che ci ha privato dei servizi di De Micheli, e di quelli dell’insider di Italia Viva, Bellanova, nota per il suo prestarsi in favore delle taglie forti in falpalà.

Mentre  si è registrato un diffuso compiacimento per  le permanenza della Dadone (5Stelle) la vestale del “lavoro agile” nel settore pubblico che ha legittimato il part time e il cottimo per giovani e donne, passata alla storia per gli elogi rivolti dal Presidente Conte, in quanto modello replicabile del Pola ( (Piano organizzativo del lavoro agile), per aver partecipato ad una riunione di governo sul decreto semplificazione in diretta dall’ospedale dove aveva partorito.  

Che se poi i competenti sono donne allora c’è proprio da esultare, come fa la Conchita De Gregorio che si bea per la chiamata di  Marta Cartabia, “ex presidente della Corte Costituzionale, ridente alpinista, eterna riserva delle istituzioni, giurista di grandissimo valore”, una nomina significativa perché, scrive, “passare da Alfonso Bonafede a Marta Cartabia, al ministero di Grazia e Giustizia, è come togliere Al Bano e mettere Nina Simone”. Per dir la verità Simone ma anche Albano sarebbero stati preferibili a quella feroce beghina, espressione più alta della missione confessionale del governo ciellino, protetta del Papa e del re, inteso come il mai abbastanza detronizzato  Napolitano, bocconiana e dunque europeista frugale, autrice di un testo a 4 mani con Violante il generoso redentore dei ragazzi di Salò, impenitente crociata in campo contro il matrimonio omosessuale e altre sconcezze.

Eh si, donne, potete stare contente, è arrivato l’arrotino che grazie alla presenza nel suo esecutivo di ben tre donne autorevoli, prestigiose e competenti che mettono in ombra la presenza obbligata dalla realpolititik delle cheerleader del Cavaliere e della nativista leghista si occuperà di “colmare i divari” retributivi e di carriera, metterà a punto le misure eccezionali per combattere la disoccupazione femminile nel modo che questi killer imperiali conoscono meglio, affidarle a delle kapò capaci di versar lacrime mentre vi fanno entrare nelle loro camere a gas digitalizzate e agili.