Anna Lombroso per il Simplicissimus

Dalla   lettera di Karl Marx a Ludwig Kugelmann, medico, attivista e pensatore socialdemocratico, dell’11 luglio 1868: “sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa”.

Così si capisce che non siamo solo noi, popolino, massa, plebaglia, infantili e scriteriati, ma anche il ceto dirigente, le autorità che dicono di aver deciso per il nostro bene, imponendo una sospensione, non dico di un paio di settimane soltanto, del lavoro, limitandolo a quello che una volta di sarebbe detto produttivo, ma che  ormai si limita a importare, assemblare, immagazzinare, timbrare, trasportare, recapitare, oltre che di alcuni diritti fondamentali e della democrazia, impedendo grazie a ogni forma possibile di persuasione morale, che i cittadini vadano al voto, temendo i nefasti assembramenti partecipativi concessi qualche mese fa.

A compensare tante perdite di beni, sicurezze, dignità ci vengono offerti gli ottimistici trastulli, le profezie degli economisti della felicità, i giochi di società della modernizzazione, che ormai sta a significare due cose soltanto: un ambientalismo al di sotto del giardinaggio grazie alla paccottiglia dell’economia green, in modo che  i grandi inquinatori possano scaricare sulla collettività colpe e responsabilità ipotizzando che i guasti del mercato si riparino con il mercato. E, soprattutto, la digital economy, grazie alla quale con la tecnologia, l’informatizzazione fino all’intelligenza artificiale ci promettono che finirà la fatica, anche se è altamente improbabile che finisca lo sfruttamento. 

Come è noto i più esposti e i più provati da questa emergenza sociale non hanno tribuna né platea, piazza o profilo social. Del loro smartworking, anche quello trattamento privilegiato e in quanto tale riproduttore di disuguaglianze e discriminazioni, sappiamo poco salvo indovinare che per alcuni significa cottimo contemporaneo, diponibilità h 24, incremento di sorveglianza, espansione delle anomalie contrattuali e del sistema di ricatti, con in più la rinuncia a quelle forme di socialità e identitarie che potrebbero indurre presa di coscienza e impegno collettivo a tutela del proprio lavoro. 

A strati e ceti più protetti invece questa narrazione piace, chi gode di superstiti sicurezze, di privilegi e garanzie e si è convinto che siano inalienabili continua a compiacersi dei miti demiurgici dell’economia otto-novecentesca, quella imperniata sul Progresso e sui suoi doni, elargiti dalla provvidenza in forma di conquiste della scienza e della tecnica, di accesso alle risorse, di istruzione e del conseguente benessere che la ricchezza di pochi distribuisce generosamente a molti, omettendo l’altra faccia, gli effetti secondari che producono disuguaglianze, mercificazione, profitto avido, guerre di conquista.

Si è fatta strada così quella percezione  di una infinita e inviolabile onnipotenza virtuale che ci consente di parlare faccia a faccia con un interlocutore dall’altra parte del mondo, di coprire distanze quasi incommensurabili, di avere notizie e informazioni in tempo mentre gli eventi accadono, oggi messa in discussione della rivelazione dell’impotenza reale, che ci condanna a riti propiziatori e apotropaici, ai fumenti della nonna per contrastare un virus diventato minaccia apocalittica per via della distruzione operata su ricerca, sistema sanitario, ambiente, potere di acquisto e di accesso ai servizi e ai beni comuni.  

Una dimostrazione concreta del ritardo del “senso comune” sulla realtà è proprio dimostrata dall’attenzione rivolta al mondo di opportunità che si svilupperebbe grazie alle piattaforme digitali, sottovalutando la loro potenza di autogenerazione di profitti prodotti dal contributo volontario del pubblico che scambia dati, offre informazioni pronte per la commercializzazione, si sottomette alla pubblicità promuovendo indirettamente e incrementando consumi, diventando a un tempo cliente, promoter, agente di vendita e sfruttato.

Peggio ancora succede quando osservatori e residenti in quelle geografie – finora –  risparmiate, si imbattono nella sharing economy, nei lavori alla spina che permetterebbero ai più dinamici remunerazioni principesche e invidiabili margini di autonomia, consistenti nella libertà di scegliersi gli orari e i percorsi più favorevoli al pieno impiego del neo- cottimo. Proprio l’altro ieri a smentire  la gustosa favoletta pedagogica della Boralevi sulla stampa (ne ho parlato qui:   https://ilsimplicissimus2.com/2021/01/18/favolette-immorali/) abbiamo appreso della morte in un incidente non casuale del fattorino di Deliveroo,  47  anni, in una delle sue normali giornate lavorative di 15 ore.  

Anche in questo caso si racconta che si tratta di  forme di “lavoro agile”, supportato da sistemi di logistica  grazie ai quali l’operatore partecipa all’assegnazione effettuata online e  gode della possibilità di decidere lo svolgimento delle sue mansioni, come si fa nelle  zone Free Login dove, è proprio Deliveroo a propagandarlo, “potrai andare online quando vorrai senza alcuna necessità di prenotare le tue sessioni in anticipo…. Tutto ciò che dovrai fare sarà essere all’interno della zona di riferimento e fare login nell’app Deliveroo Rider, così quando sarai online inizierai a ricevere proposte di consegna e, come sempre, sarai tu a decidere quali accettare e quali no”.

Il sottoproletariato di oggi e domani è anche quello dei cottimisti e del caporalato digitale, se ormai i rider più scafati gestiscono un gruppo di “dipendenti” che effettuano le consegne in outsourcing. Gente che, come gran parte dei lavoratori autonomi, una volta apparteneva al ceto medio ormai retrocesso e impoverito e orfano di rappresentanza politica e sindacale, spinto dal bisogno e dal distanziamento sociale che c’era ben prima del Covid a confliggere con gli altri, autonomi contro dipendenti, artigiani contro ristoratori, disoccupati contro part time, in una lotta orizzontale provocata e della quale godono le classi dominanti.

Comunque sia della degradazione o della sostituzione del lavoro finiremo per soffrire tutti. Se, come è già evidente, è diventato più facile automatizzare operazioni umane complesse piuttosto che guidare, sistemare merci negli scaffali e se la fine della fatica grazie alle piattaforme, tanto per fare un esempio, non interessa milioni di donne e uomini che continuano a lavorare in fabbrica, nei campi, nelle miniere di litio e cobalto che servono agli smartphone simbolo della nostra personale rivoluzione digitale.

Però per chi ama le curiosità, c’è un settore investito dalla modernizzazione che si colloca all’avanguardia. Quello dei cassamortari – come sono chiamati a Roma- che hanno raccolto la sfida epocale creando   cimiteri.online o Rip.Cemetery, dove basta un clic per entrare in un camposanto virtuale dove esseri umani (ma pure  animali)  trovano accoglienza in un paradiso virtuale nel quale resistere al tempo e all’oblio, con un imperituro c’è un profilo social post mortem  con foto, video, audio, post e like.

Ma ci sono anche funzioni più concrete opportunamente informatizzate: il sensore di movimenti da chiudere nella bara per contrastare il fenomeno, peraltro raro, di morti apparenti, il Qr code da incidere sulla lapide per fare accedere i dolenti alla banca dati con le gesta del caro estinto per un ricordo interattivo, mentre i Giappone esistono già e con successo i cimiteri Hi-Tech.

E ovviamente spetta a Microsoft il primato di  un brevetto per una tecnologia che “rianimerebbe” i morti ricreandoli attraverso i post sui social media, video e messaggi privati ​​che potrebbero anche essere scaricati in un modello 3D realistico del defunto.  Il chatbot, potrebbe essere una figura storica, una celebrità, un amico o un parente trapassato, utente sarebbe quindi in grado di simulare una conversazione umana tramite comandi vocali e / o chat di testo.

Può darsi che sia  questa la clientela preferita dal gigante dell’informatica. Resta però, purtroppo,  un limite estremo oggettivo allo svilupparsi delle opportunità offerte alla nostra vita dalla tecnologia,  la morte continua a essere implacabilmente naturale.