Insomma erano il primo indizio di qualcosa che poi sarebbe dilagato e questo non ci deve meravigliare perché il modo di vestire ricopre sempre anche un ruolo simbolico che va molto al di là dell’ottuso mondo della griffe, racconta storie, può segnalare appartenenza ed è essenzialmente un modo di comunicare che ha un lato consapevole collegato all’apollineo della moda e uno inconscio dove si agitano le pulsioni. Nel 1980 non potei entrare in un ristorante di New York perché ero in jeans ovvero in abito considerato da lavoro e trovai la cosa stupida e grottesca proprio nel Paese che aveva se non inventato quei pantaloni ( a quello ci pensarono gli antichi abitanti di Chieri e Nimes oltre che di Genova dal quale poi deriva il nome) quanto meno la sua idea di capo popolare e standardizzato. Oggi nello stesso ristorante, ammesso che ancora esista, potrei entrare con i jeans stracciati ed anzi mi guarderebbero male se usassi dei pantaloni normali e tuttavia vivo in un mondo enormemente più omologato e normalizzato di allora. Come ogni forma di comunicazione anche quella del vestire è verticalizzata e può essere altrettanto ingannevole. Se attraverso la moda, come suggeriva Roland Barthes, “la società si mette in mostra e comunica ciò che pensa del mondo” non c’è niente di meglio del jeans strappato che simula il lavoro che ci viene tolto, simula la rinuncia a quella che potremmo chiamare distinzione attraverso capi che in realtà sono più costosi di quelli integri, simula semplicità a fronte di lavorazioni complesse, allude a una vaga libertà quando invece rappresenta la massima sottomissione. Insomma ci portiamo addosso, bella aderente alla pelle la mistificazione.