Quando alla fine degli anni ’80 cominciarono ad essere per la prima volta di moda, i jeans stinti e stracciati potevano essere scambiati con una delle mille tendenze che infilzavano la mente consumatrice come le frecce di San Sebastiano e con tutta la violenta volgarità di quei tempi da bere. Ma non era una moda qualsiasi, destinata a passare nel giro di una stagione, essa invece era il segnale di una drammatica caduta culturale e politica non soltanto per il malgusto che esprimeva, in tutti sensi, da quello puramente estetico a quello ecologico richiedendo lavorazioni ulteriori molto pesanti  per l’ambiente, ma perché rappresentava da una parte la presa in giro del lavoro, di quello duro che consumava ossa e pantaloni che le nuove generazioni irridevano illuse dalla promessa del lavoro cognitivo, di creatività e facilità che sarebbe arrivata senza combattere, dall’altro la tendenza alla finzione della vita, a rivestirsi di un vissuto fasullo, della simulazione di vite impervie proprio come il fango chic che veniva venduto per decorare i fuoristrada che mai avevano assaggiato nemmeno l’erba dei giardinetti. Essi insomma costituivano il primo concreto segnale di finta ribellione e di totale omologazione spacciata per espressione della propria diversità e contestazione delle regole, secondo un canone che si andava affermando e che trovava nella musica il suo filone principale. niente per esempio è stato commerciale e determinato dai venditori come il rock che pure è ancor oggi sinonimo di spirito libero.

Insomma erano il primo indizio di qualcosa che poi sarebbe dilagato e questo non ci deve meravigliare perché il modo di vestire ricopre sempre anche un ruolo simbolico che va molto al di là dell’ottuso mondo della griffe, racconta storie, può segnalare appartenenza ed è essenzialmente un modo di comunicare che ha un lato consapevole collegato all’apollineo della moda e uno inconscio dove si agitano le pulsioni. Nel 1980 non potei entrare in un ristorante di New York perché ero in jeans ovvero in abito considerato da lavoro e trovai la cosa stupida e grottesca proprio nel Paese che aveva se non inventato quei pantaloni ( a quello ci pensarono gli antichi abitanti di Chieri e Nimes oltre che di Genova dal quale poi deriva il nome) quanto meno la sua idea di capo popolare e standardizzato. Oggi nello stesso ristorante, ammesso che ancora esista, potrei entrare con i jeans stracciati ed anzi mi guarderebbero male se usassi dei pantaloni normali e tuttavia vivo in un mondo enormemente più omologato e normalizzato di allora. Come ogni forma di comunicazione anche quella del vestire è  verticalizzata e può essere altrettanto ingannevole. Se attraverso la  moda, come suggeriva Roland Barthes, “la società si mette in mostra e comunica ciò che pensa del mondo” non c’è niente di meglio del jeans strappato che simula il lavoro che ci viene tolto, simula la rinuncia a quella che potremmo chiamare distinzione attraverso capi che in realtà sono più costosi di quelli integri, simula semplicità a fronte di lavorazioni complesse, allude a una vaga libertà quando invece rappresenta la massima sottomissione. Insomma ci portiamo addosso, bella aderente alla pelle la mistificazione.