Anna Lombroso per il Simplicissimus

Quando pedalo i problemi della vita spariscono. È una delle poche attività che mi permette di staccare completamente e non pensare ad altro”.

La dichiarazione ripresa da un libro uscito un anno fa “Lavoro alla spina, Welfare à la carte” è di un dipendente di un food delivery.

E la dice lunga su uno degli effetti corruttivi dell’occupazione offerta dalle piattaforme: la precarietà più sregolata, che combina caporalato e cottimo, viene intesa come una opportunità per godere di una certa “indipendenza”, grazie alla  quale ci si illude di poter  scegliere come e quando lavorare. E in virtù della quale ci si convince di essere autonomi: si interagisce virtualmente con un “padrone” immateriale, si è apparentemente esentati  dagli obblighi della subordinazione, che però è quella che garantisce le poche tutele ancora concesse in rapporti che sono sempre più caratterizzati da regole commerciali.

Il fatto che la relazione sia virtuale fa sottovalutare di essere soggetti a un sistema di controllo e verifica dell’efficienza e efficacia della prestazione ancora più  feroce, perché è quello a stabilire se il dipendente avrà chiamate, se macinerà chilometri e tagliandi oppure se verrà coinvolto sempre meno e con minor profitto, anche per via  della valutazione capricciosa dei clienti chiamati a dare un voto al “prodotto pony”.

Adesso che il Covid ha imposto l’amazonizzazione dell’economia, le cose sono peggiorate. Il sistema di commercializzazione, logistica e distribuzione delle  piattaforme ha perso qualsiasi  carattere che non sia quello della schiavitù, che permette ad Amazon  di trarre vantaggio dalla messa fuori gioco del commercio tradizionale accumulando 25 miliardi di dollari di profitti in più, con guadagni cresciuti del 197% e vendite aumentate del 37% superando i 96 miliardi di dollari, favorite dallo spostamento delle abitudini di consumo verso gli acquisti on line effetto del lockdown.

In realtà più del 50% dei suoi utili   non è dato dall’e-commerce, ma dalla vendita e dalla gestione di dati messi sul mercato, a significare che i dipendenti non sono il vero irrinunciabile motore del guadagno e il rendimento non ne soffre se sono maltrattati, umiliati, comprati e affittati a poco prezzo in un sistema che cresce e si muove e circola senza oggetti, prodotti, derrate e manufatti.  

Consiste in questo il grande successo del modello di Bezos che via via ha saputo combinare il capitalismo delle merci, quello speculativo e quello dell’informatizzazione, diventato il più fertile perché concorrono volontariamente all’accumulazione e ai guadagni dell’impresa tutti quelli che cedono e fanno circolare dati, una merce che non richiede lavoro ma che genera utili, in cambio di servizi che ritengono siano  gratuiti e regalati, come nel caso di Prime.

Intanto fuori dallo stabilimento di Amazon dell’Alto Polesine sostano da mesi i camper: sono quelli dove dormono, mangiano, vivono, se quella si può chiamare vita, i dipendenti a tempo determinato dell’azienda, che non hanno garanzie da esibire per affittare o mantenere una casa. Ma il contagio indiretto della barbarie della forma che ha assunto il gigantismo bulimico delle multinazionali si esprime in altri modi, condiziona scelte e consumi, influenza l’immaginario e consolida, oggi più che mai, la narrazione di masse avide e insaziabili di cibi, merci e fescennini da accontentare con l’edificazione di altri tempi nei quali bighellonare, guardare vetrine sognando acquisti e officiare i riti della socialità espulsi dalle piazze.

In Emilia Romagna  Bonaccini chiude i mercati e i mercatini mentre risparmia Coop e Gdo, Merola  a Bologna inaugura con pompa trionfalistica  il People Mover che  collega l’aeroporto di Bologna-Borgo Panigale – da mesi una cattedrale nella quale non si officiano né arrivi né partenze – con la stazione di Bologna Centrale, allegoria estemporanea dell’alleanza costruttivista tra pubblico e privato, e che replica l’insensato ampliamento dell’aeroporto di Parma sulla base di un progetto fotocopiato  da quello di Orio al Serio di Bergamo.

E nemmeno ci provano a dire che sarà al servizio del “turismo che non c’è”, visto che in meno di un giorno Amazon sceglie nelle vicinanze un lotto di oltre 10 mila mq e se lo compra per realizzare un centro smistamento, di cui si fa testimonial l’Unione Industriali che ne promuove il potere di attrazione per altre imprese di logistica, contribuendo ad allargare l’azionariato dello scalo, già aperto all’arrivo di un  partner estero, forse  Etihad, a imprese interessate al nuovo polo con contorno di concessioni, autorizzazioni e permessi.  

Così  si consolida il trionfo delle grandi catene commerciali, della  distribuzione compresi quelli take away, e  di intrattenimento come Netflix e  Prime, per promuovere il consumo da casa “prodotto”  da forza-lavoro sottopagata, sfruttata e talmente umiliata che in questi giorni si può leggere su Facebook lo stato  di una entusiasta dipendente di Amazon che celebra la ditta che “pensa” ai suoi lavoratori con una strenna di 300 euro, una mancia buttata in bocca agli affamati né più né meno delle elemosine e dei ristori governativi elargiti discrezionalmente  tutta quell’economia di prossimità che sta fallendo, ridotta alla fame insieme ai suoi addetti: turismo, ristorazione, artigianato, piccoli aziende alimentari e allevamenti.

Sarà anche vero che il capitalismo sta vivendo una crisi profonda, sarà anche vero che si sta accelerando quel processo autodistruttivo che potrebbe portarlo al suicidio.

Ma c’è da temere che sia più vero ancora che macina un successo dietro l’altro per quando riguarda la distruzione di ogni resistenza da parte degli sfruttati nel cui esercito sempre più informale  e precarizzato sono entrati a far parte,  inconsapevolmente,  anche soggetti qualificati e “creativi”  che si realizzano nell’ambito dell’informazione, della digitalizzazione  e della conoscenza, culturalmente più preparati e dunque potenzialmente  più emancipati, che non percepiscono o rimuovono di trovarsi nella stessa situazione del commesso o dell’operaio o del sottoccupato stabile, quello che si è ricavato una sua cuccia augurandosi di poterla mantenere o che addirittura, succede in Glovo, in Just eat, diventa “imprenditore” costruendosi una rete cui appalta il servizio di consegna che dirige dal Pc di casa.

Si tratta di categorie escluse dal sistema di protezioni e di garanzie del welfare tradizionale, esteso non più solo ai giovani e che è costretto a rivolgersi a forme di tutela aziendale e corporativa comunque privata, proprio quelle promosse da anni dalle multinazionali che hanno creato fondi pensionistici, assicurativi, assistenziali cui i dipendenti contribuiscono realizzando il prodigio di essere sfruttati due volte, con la intermediazioni dei sindacati ormai retrocessi a patronati e agenti adibiti alla commercializzazione di servizi.

Come siamo caduti in basso anche in materia di profezie con la verifica di quella di Buffett quando se ne uscì con la stranota battuta “la lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”. La moltiplicazione delle forme di lavoro e dei contratti che le regolano, le disuguaglianze di trattamento e di accesso all’interno del mercato hanno ostacolato e ormai minato definitivamente la possibilità che si coaguli e agisca un soggetto collettivo unitario in forma di “classe”, difensiva e antagonista.

 Non lamentatevi di non avere il cenone di Natale “con i tuoi”, se non vi siete meritati quel “pranzo di gala”.