Anna Lombroso per il Simplicissimus

Come non avere nostalgia dei bei tempi andati, quando la ghiotta rubrica fondopagina del lunedì, così cara a sciure e  cumenda, era a firma di Alberoni,  mentre oggi rischiamo che ci tocchi il suo erede ideale Fusaro, tempi nei quali la sociologia più che una scienza era un piacevole genere letterario, tanto che le formule e gli slogan del Censis facevano irruzione nell’immaginario collettivo e diventavano espressioni di uso comune:  famiglia combinatoria, furore di vivere, sovranismo psichico e sono solo alcuni, come Italia del cattivismo, che riguardava però solo una deplorevole minoranza,  alla prova della sopravvivenza.  

Anche nei momenti più bui infatti i narratori del Censis “da oltre 50 anni interpreti del Paese”, assistevano i regimi e regimetti con il loro favoleggiare  innervato di positività, cauto ma realistico ottimismo, con i loro facondi messaggi di dinamismo che aggiornavano i nostri miti fondativi di popolo di navigatori e poeti grazie alla fertile aggiunta del contributo di imprenditori dei distretti del Nordest che andavano a recare i doni del know how in giro per il mondo, con la lieta novella della creatività italiana al sevizio del Made in Italy.

E non mancava mai il riferimento ai capisaldi della famiglia custode più che della tradizione di tesoretti investiti nel successo delle generazioni future, capace di modernizzare i valori costitutivi, aprendosi a scelte, inclinazioni e relazioni fertili di conquiste morali e emozionali.

Guardandoci indietro mentre via via si disgregava tutto, mentre si approfondiva sempre di più la distanza tra ceto dirigente e società civile, mentre imperversavano gli scandali che incrementavano il disincanto democratico e nessuno sapeva offrire radiose visioni del futuro, mentre la politica comunicava messaggi di doverosa rinuncia meritata per esserci noi concessi troppo, il Censis bonariamente ci regalava un’Italia che non c’era, si rallegrava che fossero superati, insieme alle classi, il conflitto e la lotta, ci raccontava un Paese dove la democrazia faticosa e non del tutto conquistata sapeva addomesticare il sistema e la sua ideologia stemperando la ferocia  capitalista nei tinelli di Novello di una piccola borghesi  che sa negoziare bisogni e aspirazioni rivendicando per sé il merito di aver contribuito a benessere, conquiste, diritti cui possono accedere anche uomini in tuta blu, contadine, artigiani e poi perfino nuovi arrivati, a condizione che dimostrino la volontà di integrarsi.

Dev’essere stata un’impresa ardua dover rendere conto che si era usciti da quell’Eden del ceto medio, che la severità paternalistica necessaria a guidare un popolo in eterna crisi adolescenziale, si era trasformata in austerità che toglieva a chi aveva già poco, che si allargavano sempre di più  le categorie che subivano la cocente perdita di beni, garanzie, lavoro, sicurezze, trasformati in topi bianchi che passano i giorni in una gabbia di doveri e frustrazioni su e giù sulle scalette dei mutui, delle bollette, costretti a indebitarsi per comprare l’istruzione dei figli e dei nipoti, l’assistenza medica, fondi che dessero una parvenza di dignità alle pensioni maturate in età sempre più avanzata, quando la sopravvivenza è più “cara” perché si è più vulnerabili, fragili, cagionevoli. 

Negli ultimi anni la rivelazione è stata amara e difatti il rapporto annuale ha così perduto il suo appeal ottimistico, scopiazzato da leopolde, think tank e sardine, e i giornaloni della Gedi che aspettavano la pubblicazione per cannibalizzarla e cucirle intorno editoriali, inchieste, pensose riflessioni, doverosamente dedicano un pezzullo marginale tratto dal corposo comunicato stampa.

Quest’anno poi, capace che il rapporto subisca un ostracismo per i reati di disfattismo, nichilismo fino a quello di eresia. 

Eh si perché perfino il Censis si è accorto che il capitalismo è in crisi, che il Mercato non ce la fa a mantenere le sue promesse di prosperità per tutti, ma che invece ha prodotto e peggiorato squilibri e disuguaglianze, che l’ordine mondiale che lo garantiva sa solo portare guerre di conquista, morte, fame  e repressione, generando sommovimenti che non riesce a controllare e che la globalizzazione, come il mito del Progresso,  è un mostro a due teste e adesso rivela quella cattiva, quella dei poteri  selvaggi della finanza, delle multinazionali, del controllo sociale sempre più pervasivo, dell’inquinamento e del cambiamento climatico,  perfino della circolazione di virus.

In una “ruota quadrata che non gira”, il 2020, anno della paura, ha registrato perfino secondo il Censis, la vittoria del governo apocalittico del terrore costringendo gli italiani a decidere che è meglio “essere sudditi che morti”, ammesso, ci sarebbe da aggiungere, che una esistenza privata di lavoro, istruzione, cultura, bellezza, socialità e affettività non assomigli da vicino a una progressiva dipartita. Così è “naturale”, ammesso che ci sia qualcosa di naturale nell’assoggettamento a una emergenza della quale non si vede fine perché le scelte iniziali non possono essere smentite o riviste pena la perdita di un consenso fondato sulla repressione combinata con la dolce violenza di una persuasione moral-sanitaria, che si radichi, lo dicono loro gli osservatori del costume e della percezione, la “bonus economy”, con l’amministrazione  e l’erogazione di mance, ristori compassionevoli quanto arbitrari, nella misura di circa 2000 euro a testa per almeno un quarto della cittadinanza. E che quelli che conservavano ancora qualche bene, proprio come evasori che temono prelievi forzosi e delicate patrimoniali, ricorrano a forme di “liquidità precauzionale”: 41,6 miliardi in sei mesi, per immunizzarsi, ammesso che sia un vaccino, dai rischi.

Mentre pare proprio non ci sia difesa contro un rischio che era già presente e che ora, come sempre succede ai rischi qui da noi, ha assunto le proporzioni di una emergenza, che sancisce il successo della politica del divide et impera, che cresce con el disuguaglianze e che sa mettere tutti contro tutti, ma orizzontalmente, perché chi sta in lato mentre muove i fili si salva: garantiti (ammesso che ne ce siano) contro precari, insegnanti contro artigiani, impiegati contro osti, nipoti contro nonni sperperatori, occupati contro disoccupati (se ne sono aggiunti altri 500 mila) che minaccerebbero chi ha qualche briciola con la loro pressione parassitaria.

E così si spiegherebbe che un numero ragguardevole di italiani invochi la pena di morte, il 44 per cento, anche se non chiarisce contro chi deve essere comminata, trasgressori sugli sci, negazionisti cui far fare da cavie per vaccini non sperimentati, se il 77,1% pretende pene severissime per chi non indossa le mascherine di protezione delle vie respiratorie, non rispetta il distanziamento sociale o i divieti di assembramento, come accade quando le frustrazioni di chi è pronto a recedere da conquiste liberano i bassi istinti di sopraffazione che albergano in noi (il 57,8% degli italiani è disposto a rinunciare alle libertà personali in nome della tutela della salute collettiva, lasciando al Governo le decisioni su quando e come uscire di casa, su cosa è autorizzato e cosa non lo è, sulle persone che si possono incontrare, sulle limitazioni alla mobilità personale e quasi il 40% è pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, accettando limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione e di iscriversi a sindacati e associazioni).

È finito il tempo dell’ottimismo sociologico, che di per sé era un ossimoro: non potrà che andare sempre peggio se l’epidemia ha permesso che venisse demolito totalmente il sistema dell’istruzione pubblica. Solo l’11,2% degli oltre 2.800 dirigenti scolastici intervistati dal Censis ha confermato di essere riuscito a coinvolgere nella didattica tutti gli studenti più del 10% dei quali mancava all’appello alla stentata ripresa. Il 53,6% dei presidi sostiene che con la didattica a distanza non si riesce a coinvolgere pienamente gli studenti e soprattutto quelli con bisogni educativi speciali, quelli per i quali la socialità che si instaura nelle aule scolastiche è insostituibile: gli alunni con disabilità (circa 270.000 persone solo nelle scuole statali) o con disturbi specifici dell’apprendimento (circa 276.000). E una larga maggioranza di dirigenti ammette di non poter far nulla per prevenire la dispersione scolastica.

E sono fosche perfino le previsioni per il Natale: il 79,8% degli italiani chiede di non allentare le restrizioni o di inasprirle. Il 54,6% spenderà di meno per i regali da mettere sotto l’albero, il 59,6% taglierà le spese per il cenone dell’ultimo dell’anno.

E ci credo:  il 44,8% degli italiani è convinto che usciremo peggiori dalla pandemia, che ha contribuito non sapremo mai in quale misura a 60 mila decessi, un olocausto di anziani morti di vecchiaia accelerata, diagnosi e  cure sbagliate, malasanità, che ha inizialmente rivelato poi rimosso in favore della colpevolizzazione della collettività i crimini ai danni del sistema di assistenza, eroso, ragionevolmente, qualsiasi fiducia nelle istituzioni e nella comunità scientifica per rafforzare invece l’aspettativa nei confronti di una tecnica che si sviluppi nelle direzioni della digitalizzazione e informatizzazione e di una ricerca indirizzata alla produzione di un susseguirsi di vaccini che tengano in vita e “produttivi” miliardi di automi davanti al Pc.

Ormai perfino il Censis potrebbe essere a rischio censura quando conclude: “Quando esaurirà la sua onda d’urto, la pandemia lascerà dietro di sé una società più incerta e impaurita, ma soprattutto una società con una profonda crisi economica e occupazionale, di cui non tutti pagheranno le spese allo stesso modo”.

Ma potete star tranquilli, se la cava ancora con la solita paccottiglia di resilienza, capacità di adattamento: Franza o Spagna purché se magna, siti Unesco a consolarci: basta ca ce sta o sole, ca c’è rimasto o mare,   a conferma che siamo proprio il Paese delle canzonette, e che la musica è sempre la stessa, colpevolizzarci per farsi assolvere.