Anna Lombroso per il Simplicissimus

La  famiglia  Valvrojenski, costretta alla fuga dal Governatorato di Vil’na in Lituania per via di un succedersi cruento di pogrom ai danni della comunità ebraica, si era stabilita a Boston nel 1875 assumendo il cognome Berenson. Uno dei ragazzi Valvrojenski, Bernard, dimostra un così vivace  e poliedrico talento da essere ammesso ad Harvard, da dove, grazie a una generosa borsa di studio, si reca in Europa, visitando Parigi, Londra,  frequentando salotti letterari e artistici e perdendosi con avida curiosità in musei e gallerie finché nel 1890  si traferisce a Firenze.

E diventa Bernard Berenson, uno dei più appassionati studiosi e storici dell’arte, innovatore, discusso, venerato e contestato. Dobbiamo a lui la definizione  originale e visionaria di “valori tattili”, che  si trovano nelle rappresentazioni quando queste non sono semplicemente imitate   “ma presentate in un modo che stimola l’immaginazione a sentirne il volume, soppesarle … misurare la loro distanza da noi, e che ci incoraggia  … a metterci in stretto contatto con essi, ad afferrarli, abbracciarli o girar loro intorno”, permettendo a un oggetto raffigurato di essere percepito come esistente.

A volte vien proprio da dire che certe intelligenze che hanno illuminato grigie esistenze con le loro folgoranti intuizioni, è meglio che non vedano al realtà contemporanea.

A meno che non pensiate che stare pigiati davanti a Antonello da Messina, a Cimabue, a Piero della Francesca, a farsi  un selfie da diramare su Wathsapp, in attesa di raggiungere il souvenir-shop per conquistarsi l’adesivo per il frigorifero, sia una conquista democratica, e che stare tutti insieme nello stesso momento davanti all’Uomo vitruviano prima che prenda il volo oltralpe per propagandare l’Italia e i suoi ministri dei beni culturali iperdotati in marketing rappresenti il godimento perfetto di un diritto, fino a poco tempo fa l’unico davvero riconosciuto, quello a consumare, ora sostituito da quello della salute.

A questa nuova realtà si è invece entusiasticamente adeguato il direttore degli Uffizi Eike Schmidt, quello noto per aver gettato alle ortiche vecchiumi e attrezzature arcaiche del passato, preferendo a Berenson, Morelli, Longhi, e, diciamolo, perfino a Sgarbi, ben altra influencer e che per accompagnarci nelle ondate virali che si aspettano ha proposto  Uffizi On Air, “un modo ancora più diretto per condividere i tesori del museo con il mondo”.

Così “se non possiamo portarvi fisicamente agli Uffizi”, ha proclamato con fierezza, “con questo nuovo progetto social vi ci accompagneremo virtualmente, in versione live”, anche con la “trasposizione online” dell’ultimo trittico di mostre inaugurate nelle scorse settimane e con “ipervisioni” dedicate,  tutti “prodotti” accessibili ogni martedì e venerdì, sul profilo Facebook ufficiale della sede museale fiorentina, per replicare il successo ottenuto  su Instagram(le visualizzazioni hanno raggiunto oltre 561mila contati) e con TikTok che fa degli Uffizi “il museo con più follower al mondo” dopo il Prado.

Come si era detto? Niente sarà più come prima. E difatti alla faccia dei valori tattili, dell’incontro “carnale e sensoriale” con le opere d’arte, per coglierne gli aspetti materici e plastici e sviluppare immaginazione, i ragazzini prossimi, dopo aver fatto la ricerchina di storia dell’arte, già negletta e spedita agli ultimi post nella graduatoria formativa e nelle gerarchie delle materie utili per soddisfare le aspettative della classe dirigente di domani, per la quale i quadri saranno merci da mettere nel caveau, potranno prodursi, davanti al pc di casa grazie alla Dad, in fertili e giovevoli escursioni virtuali agli Uffizi. Che poi non è certo una novità, basta pensare al Gran Virtual Tour (perché mai chiamarlo Viaggio in Italia, come avrebbero fatto Goethe, Keats, Lord Byron Montesquieu, potendo usare un qualche slang imperiale?)  del Ministero competente, che pare il catalogo online dei prodotti di un commesso viaggiatore costretto al lavoro agile, con le foto per invogliare la clientela come le vetrine dei ristoranti giapponesi.

E perché lamentarsi? A pensare a quanto avete speso in gite scolastiche e visite guidate, si può ipotizzare che le imprese facciano tesoro di questo precedente offrendo nell’ambito del welfare aziendale tanto gradito dai sindacati servizi di ferie virtuali, con viaggi dei dipendenti in terme On air, ipervisioni  di ridenti località montane e immersioni live a Sharm el Sheik, in modo tra l’altro di sviluppare profittevolmente il cottimo digitale e la disponibilità h24.

E sempre per esaltare le ricadute economiche della rivoluzione digitale per la quale dovremo ringraziare l’epidemia, immaginate che risparmio  tener chiusi i musei, espellendo costose guide, ciceroni ingordi, dispendiosi sistemi d’allarme, sicché l’unico  modo per provare i valori tattili non da remoto ma in presenza, sarà andare a fare i camerieri in ville prestigiose,   portare i caffè nei consigli di amministrazione di finanziarie,   stare ben bardati in divisa e  col pistolone a fare la guardia in fondazioni bancarie.

Che poi si è capito che è questo il format da replicare, imponendo la Dad, così non c’è bisogno di insegnanti e bidelli e nemmeno di scuole sicure o  di Buona Scuola, che ci pensano le paritarie i cui alunni saranno anche tra i pochi che agli Uffizi ci andranno un giorno e fisicamente, come andranno a Ponte Vecchio, come si recheranno al Museo di San Marco, in occasione di pranzi, convention, matrimoni  e eventi se, come è noto, esiste un prezzario delle location d’arte secondo il quale un buffet al Cortile degli Ammannati costa molto meno di un tavolo al Billionnaire.

In fondo ci stiamo abituando da un po’ alla grande rivoluzione digitale, con l’obbligo alla spesa online in maniera da eliminare dal panorama urbano la paccottiglia volgare dei piccoli esercizi commerciali: il macellaio di rione e il mercatino del fruttarolo che ha l’orto al paesello per contribuire all’inossidabile grandezza imperitura di grandi catene multinazionali, di colossi della speculazione gastrica che hanno dettato le linee direttrici all’Expo di Milano.

Se andiamo avanti così è assicurato il successo di un ulteriore progresso, quando Colao e Arcuri metteranno a diposizione un’app condita di effetti speciali aromatici e odorosi per nutrirci online con un vitto immaginario e senza gravare sui bilanci domestici sempre più miseri da destinare ad altri consumi sociali informatici e sanitari.

E non è mica un caso che siano finiti i tempi di Zenodoto di Efeso, il curatore della Biblioteca di Alessandria, che siano arrivati i manager a commercializzare i nostri tesori, quelli che non si possono infilare tra due fette di pane come il Bel Paese, e che i musei e le biblioteche abbiano lo stesso destino dell’istruzione.

Perché sono scuole anche quelli, benché anche quelli ormai infiltrati dalla “cultura del marketing” tanto da dover fare cassetta, quando si sa che far entrare tutti gratis nei templi della cultura e dell’arte per promuovere famigliarità con la bellezza, costerebbe meno di due giorni di spese militari. E proprio perché sono un bene comune al servizio della collettività per favorirne la crescita morale, sociale e civile, non magazzini di oggetti ma comunità vive della conoscenza, qualcuno ritiene che siano pericolosi istigatori di libertà, critica, creatività e anticonformismo.

Tanto da immaginare che del rilancio postpandemico  debba far parte un Fondo per la Cultura (più che mai un ossimoro se a lanciare l’idea è stato un giornalista, appartenente a buon diritto a una corporazione necessariamente ormai ignorante e assoggettata ai valori dell’oligopolio) subito caldeggiato da Colao e che dovrebbe movimentare il desiderabile contributo del mecenatismo peloso degli sponsor e l’occupazione  e lo sfruttamento privato.    

Ci resta un’ultima speranza, che l’intelligenza artificiale l’abbia vinta sui cretini naturali.