Quando si dice che viviamo nella società della comunicazione e dello spettacolo, due termini ormai completamente sovrapponibili, non si deve commettere l’errore di considerare queste definizioni come iperboli, ma come una precisa descrizione di modo di essere dove le dimensioni cognitiva e politica sono state sostituite con una rappresentazione fittizia o narrativa che tende a nascondere i rapporti reali che determinano l’evoluzione sociale.  Abbiamo per esempio un virus che si diffonde per televisione ed esso esiste solo in questa dimensione comunicativa: con ciò si intende che è del tutto indifferente se il virus esista o meno, se sia fortemente patogeno o praticamente senza effetti sulla maggior parte della popolazione, se sia costruito o sia naturale, se la sua diffusione sia incidentale o dolosa perché è la dimensione in cui viene rappresentato che conta, potrebbe essere peste e venire descritto come influenza se questo servisse al potere oppure come nel nostro caso può essere influenza ed essere presentato come peste. Questa dimensione spettacolare e comunicativa rende del tutto superflua un’analisi seria e razionale: la statistica ci dice che la mortalità non è aumentata in tutto il pianeta rispetto agli anni scorsi eppure c’è gente terrorizzata e rassegnata che non vuole saperlo o meglio la cui dimensione cognitiva viene immediatamente autocensurata qualora contrasti col mainstream. Ma spesso non si crea nemmeno questo turbamento: la passività infatti diventa un ostacolo insormontabile  all’acquisizione di qualunque conoscenza non precotta e non immessa nel grande microonde delle idee e delle suggestioni che sono i media.

C’è dunque da scandalizzarsi, ma non da meravigliarsi se il sistema comunicativo metta da parte gli elettori e tutti i meccanismi di garanzia del voto e sia lui ad eleggere il presidente degli Usa: nonostante infatti i ricontrolli siano in corso i media hanno deciso e proclamato Biden come presidente. Lo hanno fatto senza vergogna dopo una campagna in cui hanno tentato di mostrificare  Trump, ma anche con la consapevolezza di aver fallito perché nonostante un’opera di massiccia propaganda comprensiva di censure sugli scandali e sull’indecente passato politico di Biden, la valanga che pensavano di aver creato non si è manifestata. Così adesso sono diventati fan bei brogli, nella speranza che dando anticipatamente Biden per presidente, i giudici siano portati a mettere tutto sotto il tappeto. Ma la realtà è che Joe Biden non è il presidente eletto solo perché i media lo dichiarano tale ignorando e bypassando lo stato di diritto: questo verrà deciso da almeno due passaggi: l’8 dicembre quando gli stati Stati dovrebbero risolvere le controversie, cioè almeno sei giorni prima del 14 dicembre giorno nei quali i grandi elettori degli stati in bilico dovrebbero certificare il loro voti. E’ fin troppo chiaro perciò capire a cosa tende l’elezione narrativa di Biden: dare l’impressione che una marcia indietro, anche se giustificata dai riconteggi e dai controlli possa a quel punto demolire le istituzioni. E’ stato esattamente ciò che è accaduto nello scontro elettorale tra Bush figlio e Al Gore: la Corte suprema decise a maggioranza di 5 a 4 che ci sarebbe voluto troppo tempo per arrivare a un riconteggio definitivo dei voti della Florida (peraltro sabotato dal governatore fratello di Bush)  e così sospese il controllo dei voti per non creare una crisi istituzionale senza precedenti. In questo senso i media, la comunicazione sta effettivamente portando sul trono il presidente che vogliono: che ci stiano o meno gli elettori.

In questa vicenda, in questo scontro tra due candidati entrambi impresentabili come ormai l’impero di cui sono l’immagine,  non conta affatto chi abbia davvero vinto, se ci siano stati brogli e quale sia stata la loro entità nel voto postale tradizionalmente una piaga della democrazia americana da tre decenni: conta ciò che vuole la comunicazione ovvero i padroni dei mezzi di produzione delle opinioni e ciò che vuole si chiama Biden. Il fatto centrale è che il fruitore della comunicazione, che è in realtà la vittima della mistificazione non si annoi mai, ma venga continuamente sollecitato affinché non abbia tempo di pensare troppo e soprattutto abbia sempre meno l’occasione di cogliere la propria realtà sociale senza la mediazione spettacolare. Pasolini già nel lontano ’73 si chiedeva come mai il fascismo non fosse riuscito a produrre un’omologazione così profonda degli italiani come minacciava di fare la televisione. Allora era troppo in anticipo per essere capito, ma adesso è chiaro: durante il fascismo un contadino era un contadino con una precisa conoscenza dei rapporti reali che viveva, ancorché magari non sapesse esplicitarli e lo stesso accadeva per un impiegato, un operaio, un artigiano: oggi tutto questo fa parte di un una sorta di magma tenuto assieme dal consumo e da un rozzo edonismo:  Baudrillard ha sintetizzato questo concetto nella frase: Il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare. Siamo diventati banalmente contemplativi e alla fine consumatori compulsivi di illusioni o di drammi inesistenti o di purtroppo realissimi furti di realtà e di libertà.