Anna Lombroso per il Simplicissimus

Chissà se adesso che si capisce che il virus può essere sottoposto a interpretazioni discrezionali, che non segue la regola del “ndo cojo cojo”, tanto che milioni di individui che viaggiano in vagoni e bus pieni e che, secondo le tesi della scienza applicata, lavorano in condizioni di “pericolo”, non corrono però i rischi di chi vorrebbe andare al Poldi Pezzoli. E adesso che tutte le denunce sulla malasanità  si rivelano come miserabili invenzioni giornalistiche grazie al tocco del grande demiurgo che ha restituito alla Campania Felix la sua reputazione, adesso che l’indubitabile carisma e l‘efficienza di Zingaretti hanno risparmiato ai cittadini del Lazio l’impedimento a andare dal barbiere, ecco, chissà se finalmente anche i più scalmanati ultras del governo che fanno il tifo per  la tribuna dei vip si porranno qualche interrogativo.

 E chissà se cominceranno a chiedersi se non si poteva fare meglio di così, fermo restando che a seguito della definitiva demolizione dell’impianto  del sistema di prevenzione, cura e assistenza c’è da preoccuparsi anche di un brufolo o dell’uveite, se non sia trascorso il tempo lecito concesso per attribuire tutte le responsabilità ai danni del passato come alibi all’ignavia del presente (ne avevo scritto qui: https://ilsimplicissimus2.com/2020/11/04/governo-tersilli/).

Risale a luglio una spericolata affermazione della ministra Azzolina, della quale sia proibito criticare l’operato a meno di non collocarla nelle ultime postazioni della graduatoria dei peggiori, dopo La Fedeli o la Gelmini o andando indietro, la Moratti, rimuovendo invece prudentemente Berlinguer o De Mauro  o Mussi o Giannini. 

Per carità nessuno nega che la cosiddetta riforma Gelmini ha tagliato in 3 anni  oltre  8 miliardi di euro in termini di spesa per l’istruzione, e di conseguenza, 81.120 cattedre e 44.500 personale non docente, con la chiusura di molte strutture rinchiudendo allievi e docenti in classi-pollaio.  E nessuno deve dimenticare il vero proposito della Buona Scuola renziana, quello di cancellare anche la memoria e il progetto di una istruzione pubblica. O che l’austerità reco con sé precarietà e che le riduzioni di stanziamento hanno ingrossato l’esercito dei supplenti (nell’anno scolastico 2013-2014 erano 136.000 e in quello 2020-2021 ammonteranno a più di 200 mila) e diminuendo quello dei docenti di ruolo.

Ecco. a luglio, Azzolina ebbe a dire: “voi che mi criticate, vi dovrete ricredere, quello sui banchi si dimostrerà un investimento”, in occasione della gara pubblica europea indetta dal commissario straordinario  Domencio Arcuri   per la fornitura  di 3 milioni di banchi – 1,5 milioni   monouso tradizionali e fino a 1,5 milioni di tipo più innovativo – dei quali doveva essere assicurata la consegna  entro il 31 agosto.

Non vale nemmeno la pena di tornare sulla insensatezza dissipata e sospetta di questa iniziativa, nemmeno di ricordare che per ammissione dello stesso commissario i termini non sono stati rispettati, neppure di andare a recriminare sull’impianto ideologico che presiede all’unica azione messa in campo per garantire il diritto all’istruzione da quando è diventato secondario rispetto a quello alla salute.

E quando quello che doveva essere un intervento complementare: l’identificazione di 3000 stabili dove si sarebbe potuta garantire la didattica in presenza, è rimasto sulla carta, dopo aver cancellato via via tutte le ipotesi, dalle caserme agli hotel, considerate inadatte o troppo costose.

In sostanza per la scuola pubblica, quella con l’insegnante la cattedra e la lavagna, i testi sacri del sapere e gli alunni che si abbeverano alla fonte della conoscenza, sono stati previsti, tolto il malloppo dei banchi a rotelle e innovativi, e utilizzando le risorse del Fondo per l’emergenza epidemiologica da COVID-19 istituito nello stato di previsione del Ministero dell’istruzione,  € 377,6 mln nel 2020 ed € 600 mln nel 2021, successivamente incrementati  con € 400 mln nel 2020 e di € 600 mln nel 2021,  destinati all’acquisizione – in affitto o con le altre modalità previste dalla legislazione vigente, inclusi l’acquisto, il leasing o il noleggio di strutture temporanee – di ulteriori spazi da destinare all’attività didattica, anche grazie ai cosiddetti patti di comunità che non devono avere incontrato un grande favore se ormai l’ultima frontiera resta al didattica a distanza.

E infatti il “Piano Scuola” stanzia 85 milioni nel budget del “Decreto Ristori”  che “serviranno agli istituti scolastici per l’acquisto di dispositivi digitali e strumenti per le connessioni da fornire in comodato d’uso agli studenti meno abbienti”,  a conferma che è proprio un chiodo fisso quello di consegnare la soluzione di tutti i problemi, del lavoro, dell’istruzione, anche della sanità, se pensiamo a Immuni fallita e a una medicina territoriale esercitata dai medici di base più solerti via WhatsApp, alla digitalizzazione.

Consiglio dunque  la lettura del rapporto riassuntivo delle misure adottate a seguito dell’emergenza Coronavirus sul sito della  Camera (qui: https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1218064.pdf?_1590338246360  che riconferma come la scuola pubblica del futuro, grazie al Covid, sia destinata ad essere  “virtuale”, malgrado ci siano innumerevoli conferme del danno culturale, sociale e psicologico della didattica a distanza. E proprio quando è stata resa nota la indagine secondo la quale il 57% degli studenti delle scuole superiori che hanno svolto e svolgeranno la didattica a distanza pensa che la propria scuola non abbia saputo offrire un servizio efficiente, affidandone la attuazione alla tradizionale pratica di  scaricabarile sulle spalle di docenti volonterosi e famiglie, come vorrebbe quel    Patto educativo di corresponsabilità  sottoscritto da genitori e studenti contestualmente all’iscrizione  “che”, cito, “enuclea i principi e i comportamenti che scuola, famiglia e alunni condividono e si impegnano a rispettare. Coinvolgendo tutte le componenti, tale documento si presenta dunque come strumento base dell’interazione scuola-famiglia”.

Se sforzi ci sono stati, sono quelli che vengono continuamente rivendicati dalle cheerleader di Conte, e si tratta di quelli destinati alla “profilassi”, nella somma di 43 milioni per la pulizia straordinaria degli edifici, quelli che negli anni precedenti, Renzi, Gentiloni e Conte 1 regnanti, avrebbero dovuto essere messi in sicurezza grazie al programma Scuole sicure, in modo da avere soffitti lindi e sanificati nel caso crollino sulle teste mascherate degli allievi. O quelli per gli accertamenti e le sostituzioni del “personale” eventualmente affetto dal Covid.

Il fatto è che in attesa di quella europea che si riaffaccia con sempre rinnovata ferocia, il Covid impone la sua austerità doverosa: un mese fa si faceva un gran parlare di rientro in sicurezza, di investimenti, di nuovi spazi, di concorsi.

Però il prossimo concorso ordinario  prevede l’assunzione nella scuola secondaria di circa 33.000 docenti (su 430.000 candidati) sugli 85 mila promessi dalla ministra Azzolina cui si dovrebbero aggiungere i 40 mila nuovi assunti precari, in sostituzione dei 30 mila andati in pensione nell’anno 2019-2020,  con contratti però condizionati all’avvio regolare della didattica di presenza. E in ogni caso insufficienti a garantire la didattica con il rispetto delle turnazioni e dei requisiti del  distanziamento nelle circa 50 mila scuole pubbliche italiane.

Eh si, con formidabile tempismo la “curva” che ha preso il posto nell’immaginario della spreed, impone il ritorno alla Dad, come perorato  dai presidenti regionali, capeggiati da  Bonaccini che avevano chiesto da tempo di tenere a casa gli studenti per non esercitare una pressione eccessiva sui mezzi di trasporto pubblico, salvo contraddire così l’autorevole commissario straordinario Arcuri che ha messo in guardia minaccioso: le mura domestiche sono i primi focolai!  

Così anche la ministra è giustificata se annulla tutti i propositi e le misure promesse in otto mesi di chiacchiere vergognose, così l’altra ministra può dedicarsi a tempo pieno ai cantieri da riaprire rimpallando l’onere della razionalizzazione dei trasporti su altri colpevoli, che il governo comunque si esime dal commissariare come sarebbe sua facoltà.

Per quelli che pretendono da altri cittadini esautorati come loro e espropriati del diritto di parola e di critica, ma che non vogliono recedere da quello di pensiero, che cosa avrebbero fatto, che altre decisioni si dovevano prendere, potrebbe valere il rapporto subito gettato nel cestino della carta straccia redatto dalla commissione istituita a marzo e presieduta da Patrizio Bianchi che considerava l’emergenza come una occasione per intervenire davvero sulla scuola pubblica, secondo un principio caro ai fan dei grandi eventi dei quali si dovrebbe approfittare come opportunità per realizzare interventi strategici.

Invece nemmeno quello è andato bene, il Dpcm del 13 ottobre chiude definitivamente la sterile ricerca degli spazi esterni dove “fare lezione”: nella scuola non si esce e preferibilmente non si entra, non si può insegnare in spazi “altri” meno che mai quelli dove invece sono stati condannati a vivere per anni i terremotati.

Così la didattica a distanza è la distopia realizzata per incrementare quelle disparità all’origine che premiano la scuola privata, se perfino i fondi del “Piano Scuola” si preoccupano di riservare finanziamenti alle paritarie, se molti genitori scelgono forma di istruzione autarchiche, se ore di lezione vengono sostituite per pedagogici ammaestramenti sulla profilassi e la lotta al virus.   

Invece c’era qualcosa da fare: un piano di investimenti per tutelare un diritto che dovrebbe essere alla pari con quello alla salute e che dovrebbe valere gli stessi miliardi promessi per la sanità ma con regole differenti da quelle che hanno dimenticato la medicina territoriale e di base, la riorganizzazione degli orari e delle presenze,  scaglionando gli ingressi,  riducendo il numero degli allievi e assumendo personale, almeno centomila unità tra insegnanti e personale, che possano concorrere alla fine dell’allevamento dei ragazzi in batteria,  che risale a ben prima della crisi sanitaria, che allora chiamavamo crisi sociale e che dovrebbe assicurare lo stesso percorso pedagogico a tutti gli alunni.

Invece stiamo condannando i nostri figli a diventare una generazione fantasma che guarda il panorama sul desktop e gira il mondo su Skype, che dialoga con Wathsapp e che vive nella paura dell’uomo nero infetto e senza mascherina.