Anna Lombroso per il Simplicissimus

Non è certo una novità che ogni volta che qualcuno – ultimamente accusato di volta in volta di negazionismo, eresia, irresponsabilità, tradimento e così via – che compia  delitto di lesa maestà criticando governi in carica, si senta apostrofare con la richiesta perentoria di offrire soluzioni alternative, concrete e praticabili.

Già da quando lo coniò la lady di ferro, siamo in pieno regime di Tina, There is no alternative, in italiano: “Non c’è nessuna alternativa“, oggi trasformato da manifesto ideologico in religione i cui dogmi, come in tutte le fedi, devono persuadere alla bontà dell’obbedienza a principi perfino motivati da criteri di carattere sanitario, quelli del kosher, dell’halal o del venerdì di magro, proprio come sta accadendo di questi tempi.

Guai a chi spezza il patto che saremmo stati costretti a stringere con l’esecutivo e in second’ordine con una selezione appropriata della comunità scientifica e con una scrematura di manager, per garantirci la sopravvivenza.

E se all’inizio lo slogan ricorrente era sempre lo stesso, quello che invitava a non disturbare il tranviere,   è successivamente diventato la base programmatica di un vero e proprio partito, con tanto di manifesto degli intellettuali, inteso a  dare forma a un ordine pubblico e profilattico, nel  rispetto del quale era legittimo  creare una  separazione netta, con tanto di gerarchie, tra cittadini scrupolosi di serie A per questo meritevoli di salvarsi dal contagio, grazie a costumi morigerati e all’appartenenza a ceti medio alti e produttivi quindi socialmente e moralmente superiori. E invece altri di serie B essenziali nelle funzioni servili necessarie alla sopravvivenza dei primi, esposti alla pestilenza diffusa anche da untori sottoposti a pubblica gogna, tra runners, utenti di rave party, frequentatori di locali scambisti, organizzatori di orge  e fiere di paese, vacanzieri irriducibili che pensavano di rispondere agli inviti a partecipare della ricostruzione,  e pure vecchietti troppo arzilli da reprimere e isolare.

Sarebbbero stati quelli i veri colpevoli che dobbiamo tuttora concorrere a condannare, per la loro asocialità che sconfina nella sociopatia  delle piazze, tanto da rendere doveroso circoscrivere la loro espressione fanatica e criminale aggirando il dettato costituzionale all’articolo 17 che sancisce il diritto dei cittadini a riunirsi pacificamente.

Così pare sia stato stabilito a norma di legge, o Dpcm, il primato della responsabilità individuale e personale su quella collettiva e sociale, che da marzo in forma esplicita corrisponde alla tutela del profitto della classe imprenditrice impegnata a  dettare calendario e regole all’esecutivo, che rispettoso e ossequiente esegue e che trasforma in sistema di governo la conversione delle deleghe amministrative in rimpallo astioso di oneri e competenze.

Per questo mentre non si chiede conto a nessuna autorità della qualità ed efficacia delle scelte, si pretende dalle coscienze critiche di esercitare quella creatività politica strategica e organizzativa dalla quale i “poteri” e le istituzioni si sono liberati come di un peso trincerandosi dietro gli alibi della non volontà mascherata da impotenza: non ci sono le risorse, dobbiamo ripetere l’atto di fede all’Europa e all’austerità, bisogna tagliare la spesa pubblica.

E poi è diventato un imperativo etico assecondare le indicazioni di entità alle quali abbiamo sacrificato sovranità e competenze in cambio di promettenti rinunce e sacrifici e mea culpa, qualcosa, ammettiamolo, che non si è più soliti fare nemmeno in forma di fioretti e penitenze.

Infatti l’autodafè secondo l’Fmi e parte dei sacerdoti della scienza consisterebbe in nuovi lockdown, che forse farebbero aprire le porte dal paradiso ma chiudere i battenti a milioni di attività, la redenzione e la salvezza avverrebbero attraverso il vaccino monopolio dei mercanti del tempio farmaceutico, anche se pure il droghiere sotto casa conosce il mercato tanto da sapere che la concorrenza per lo più sleale tra aziende non può che rallentare se non impedire la ricerca e la sperimentazione di cure.

Fosse un Decreto del Presidente del Consiglio, si potrebbe raccomandare a tutti quelli che  fuori dalla cerchia oligarchica,  hanno osato avanzare obiezioni e critiche sulla gestione dell’emergenza e sul rilancio infinitamente rinviato come in un Milleproroghe, di indicare priorità e soluzioni, così come suggerisce loro la tanto vilipesa “pancia”, sprezzantemente inascoltata in quanto populista, proprio come l’esperienza e la realtà che sta vivendo e i suoi effetti.

Circolano in rete molte “testimonianze” di gente della strada e anche di qualche soggetto più noto, come a suo tempo Sansa candidato alla presidenza della Liguria e trombato dal garante della produttività contro i parassiti, come in questi giorni il giornalista Golia che narra la sua epopea di infetto, abbandonato senza assistenza alcuna, pur in una condizione di relativo privilegio: ho avuto difficoltà io a sentire l’Asl o Immuni, figuriamoci le persone normali.  

E come lui possono testimoniare tutti quelli in quarantena alle prese con il primo interrogativo: ma la quarantena quanto dura? tutti quelli che hanno avuto una relativa fortuna, trovando risposta nel medico di base che come il dottor Tersilli gli ha fatto dire il fatidico 33 al cellulare e prescritto una tachipirina,  tutti quelli che sono stati ore in coda in macchina, o ore al telefono per effettuare una prenotazione online, inevasa, o  tutti quelli che per ipocondria o autentica preoccupazione sono rimasti ore in attesa fuori dal pronto soccorso, come quelli che hanno fatto la file per i tamponi. E tutti quelli che hanno dato retta al Direttore Sanitario dell’ATS di Milano che in un Tg di Sky ha dichiarato: “Non riusciamo a tracciare tutti i contagi… chi sospetta di avere un contatto a rischio o sintomi stia a casa.”

O i tanti che hanno creduto nella miracolistica app Immuni, del cui fallimento sarebbero colpevoli gli increduli che non ha potuto essere collaudata in Veneto o in Sicilia,  e che ha dato luogo a performance comiche dove invece è attiva e dove chi ha aderito entusiasticamente al contact tracing segnalando la sua accertata positività – alcuni casi sono stati denunciati dalla stampa e sui social – per avviare l’allerta è stato contattato dall’Asl di riferimento quindici giorni dopo che si era sottoposto al tampone.

Ecco, loro, una proposta l’avrebbero e alternativa all’ipotesi lanciata in un workshop di ministri e regioni     di assumere duemila soggetti incaricati di “sviluppare”  l’esecuzione dei tamponi, investendo risorse che da otto mesi dovevano essere stanziate per aumentare il numero di personale sanitario competente negli ospedali.

O forse ci vorrebbe un tumulto di facinorosi come quelli che si battono contro il Muos, l’uranio impoverito, i poligoni, per denunciare  la tendenza alla militarizzazione del territorio e della società, interpretato magistralmente dall’intesa siglata tra i ministeri della Salute e della Difesa per l’attivazione  dei “200 Drive-through” allestiti per eseguire i tamponi,  con circa 1500 militari interforze, quelli che sindaci e presidenti di regione vorrebbero reiteratamente per il controllo del territorio da convertire in repressione dei comportamenti trasgressivi e “malsani”  

E soprattutto suggerirebbero di fare quello che non si è pensato di fare da marzo: impegnare sforzi economici e organizzativi per potenziare la medicina territoriale, primo avamposto per prevenzione, diagnostica e applicazione razionale di sperimentazioni e cure individuate da anni e probabilmente efficaci, consisteva nell’imporre procedure speciali, vista la liberatoria data a provvedimenti e  misure eccezionali.

Uno sforzo questo, che avrebbe dovuto riguardare anche le forniture e le competenze delle Asl, sia per quanto riguarda il materiale sanitario, i farmaci, i dispositivi, anche adottando quei criteri di semplificazione e di eccezionalità che fanno parte del mantra della classe politica, quello che si usa ai convegni, nei think tank, o per demolire l’impianto dei controlli e della vigilanza.

Ma tanto, se, come si narrava un tempo, democrazia significasse partecipazione, sorveglianza dal basso dell’azione di governo, trasmissione  di bisogni e aspettative, quella cinghia di trasmissione relegata in soffitta con la paccottiglia arcaica del Novecento, non occorreva il Covid per piangere sulle sue patologie, c’è da temere,  incurabili.

Intanto però veniamo invitati (ormai è questa la semantica governativa della mano di ferro in guanti di velluto: raccomandare, suggerire,  esortare dolcemente pena censure, sanzioni, multe) a obbedire ciecamente a un sistema di mummie, quei valori del pensiero mainstream: efficienza, competitività, iniziativa, produttività, meritocrazia, tenuti su come gli scheletri  del Tunnel della Paura,  coi fili del profitto, dello sfruttamento, della sopraffazione, sempre robusti e forti.